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JOHN STRADA  "Girasoli"
   (2025 )

Il nono album di John Strada ride amorevolmente dei nostri tempi, senza paternalismo. Con il suo rock melodico spesso ammantato di blues, anzi sembra raccontare le quotidiane gioie e tristezze con vicinanza e comprensione, senza farne della retorica.

La titletrack “Basta crederci un po'” può far pensare all'ennesimo testo da life coach che se ti impegni ce la fai, e invece è il contrario, un ironico commento a tre personaggi che tramite i social network truccano la propria vita per farla sembrare più interessante.

Con “Ballando in città” esce il lato tenero, con un sound southern per un pezzo dove Strada immagina una romantica storia tra Mary Poppins e lo spazzacamino Bert, cantando di “acquarelli di favole, giostre di felicità, sentieri colorati con pastelli magici”.

Su un morbido 6/8 elettroacustico, scorre invece lo spoken word del flusso di coscienza “Parlavo da solo”, dove la moglie del protagonista gli fa notare che stava parlando da solo mentre faceva giardinaggio. E così veniamo a contatto con le catene di pensieri: “C'è chi bacia il rosario ma dentro e feroce, chi si riempie la bocca di poveri e deboli, ma nei salotti buoni poi non si fa scrupoli. Poi ti capita per caso di fare un figlio e ti accorgi che non avevi mica capito che in questa piccola vita si nasconde l'infinito”.

“Non ti dirò ti amo” è una leggera canzone sull'amore quotidiano, quello concreto: “Amore è un dentifricio aperto, amore è un tavolo incasinato assai”. Qua sento che la voce nel ritornello viene effettata con un leggero slapback (l'eco veloce, quella che si sente nei capannoni), e subito il pensiero va a un certo artista che per ora non nomino; vediamo se dopo torna la sensazione.

Con “Manca il respiro” il blues si spinge nel soul, e la riflessione diventa critica all'inerzia: “Ci siamo abituati che c'è chi non riesce a fare la spesa, che c'è chi è convinto di trovare Dio in chiesa, a chi compra due biscotti un orgasmo e un bambino (…) alle notizie false ai suprematisti ai tortellini con il ragù (…) mi sono abituato che non son riuscito a cambiare il mondo”.

Con “Girasoli” il riferimento diventa molto più preciso e chiaro: la morte di Federico Aldrovandi. Eppure la canzone non è la solita barricadera contro gli sbirri; è invece il punto di vista che potrebbe avere un padre di famiglia, che vorrebbe che il figlio, anche se un po' immaturo (a 18 anni quanto puoi aver capito della vita?) semplicemente tornasse a casa vivo.

Il ritornello si fa domande: “Era bevuto? Era drogato? Era felice? Terrorizzato? Ma c'era bisogno? Non c'era altro modo? Che avete pensato? Che avete provato?”. E allora qui la sensazione di prima si riconferma, non è solo l'effetto slapback. Mi viene in mente proprio Bruce Springsteen, e la sua “41 shots”. La voce non raggiunge quel livello di eroismo, ma il graffiato e il calore ci sono.

“Amore social” racconta di un incontro atteso e deluso in aeroporto tra un uomo e una ragazza conosciuta online, e la musica segue coordinate country per addolcire la tristezza, mentre lui già assapora tutto quello che avrebbero vissuto insieme. Boh, forse a me è andata bene, la donna della mia vita l'ho conosciuta online, ed è ancora qui offline con me... Non è impossibile.

“La scuola è finita” è un affresco che funziona ad ogni generazione quando finisce la scuola dell'obbligo, e vive quell'ultima estate prima del lavoro o dell'università. Dopo arriva “La vita va” che sembra il sequel, dove la musica assume toni comici per descrivere questo ragazzo disorganizzato: “Il frigo è semi vuoto, c'è un po' di formaggio, la vita va. Annuso la camicia, sì si può ancora portare, devo solo ricordare di non farmi avvicinare, la vita va”.

“Giocattoli rotti” un brano davvero nostalgico, ma l'album si chiude a sorpresa in maniera più sperimentale. “La Tygre e l'Agnello” si basa su una rullata insistente, note gravi di pianoforte e distorsioni elettriche dissonanti di chitarra, per recitare riflessioni che prendono spunto da William Blake, rivolte ai femminicidi, e anche qui, senza cadere mai negli slogan.

Rock suonato con gusto da cantautore, messaggi seri senza predica, anzi con fratellanza ed empatia, e ironia senza sarcasmo velenoso. Questa si chiama classe! (Gilberto Ongaro)