recensioni dischi
   torna all'elenco


A VIOLET PINE  "Nothing safe"
   (0 )

Avvolto nel bozzolo di un urticante post-rock virato noise, “Nothing Safe”, quinto album nella imprevedibile, spiazzante parabola del trio pugliese A Violet Pine, reca in dote gli ammalianti impasti sonici del tempo che fu, a metà strada tra il bene e il male, tra melanconia e furia, tra sogno ed incubo.

Per larghi tratti aspro e velenoso, scosso da clangori metallici e dissonanze irrequiete, agitato da un clima teso e minaccioso, mai realmente pacificato o rilassato, vive sul trionfo delle dinamiche e sul susseguirsi ininterrotto di melodie importanti, ben volentieri frantumate da una ritmica frenetica, incalzante, martellante.

Acquattato sotto una spessa coltre di elettricità, un mood altalenante e cangiante cova turbato tra poca luce e molta ombra, sovvertendo una volta ancora l’ordine instabile che caratterizzava i lavori precedenti, sì distanti tra loro, eppure ogni volta sorprendenti, forieri di linguaggi, forme e stili eterogenei.

Aperto dal fluente ondeggiare de “L’Iniquo”, con lunga intro attendista, deflagrazione repentina, canto nervoso e delizioso ingorgo chitarristico a saturare un’atmosfera di sibillina imminenza, “Nothing Safe” opta per un’espressività talora sovraesposta e frontale, veicolata da brani solo falsamente canonici, il cui apparente equilibrio è alterato da variazioni toniche impercettibili, da fratture ritmiche, da piccole focose tempeste, da distorsioni disturbanti (“Lost Through The Lights”).

Mentre riecheggiano accordi aperti in un insistito interplay tra le due chitarre, oasi di effimera quiete sopravvivono come fuochi di paglia, in un ragionato trompe-l’-oreille che inganna e depista: dal passo sornione à la Interpol di una “Bad and Worse” armoniosa e crucciata, all’arpeggio estatico, trasognato e caracollante di “As I Did”, polverizzato da una coda bruciante, segnali contrastanti coesistono e confondono, fusi nel congesto magma albiniano di “Mr. Fingers”, nel roboante, sovraccarico ingorgo di “The Sad Highspeed”, nelle contorsioni spinte à la Sonic Youth di “My Old Self”.

In coda, è lo squillante fraseggio ossessivo di “The Bat’s Discomfort”, carezza e sfregio, a porre il sigillo definitivo su questo piccolo abisso di musica inquieta in perenne evoluzione, palpitante epilogo che racchiude in un’illusoria dolcezza tutta l’ambigua malìa di un album allettante, sfoggio di mascherato, insinuante eclettismo. (Manuel Maverna)