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NOT MOVING  "That's all folks!"
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Alla fine, i Not Moving sono un po’ come le addizioni in matematica o il verbo essere: se vuoi andare avanti, devi darli per assodati, non è che dopo venti, trenta o quarant’anni puoi ancora essere lì a rispiegarli. Sono cose che sai, e basta.

Ecco: i Not Moving esistono dal 1981, in varie forme, ma nella medesima sostanza. Sono nati e sono morti, sono risorti e sono sopravvissuti a sé stessi, ai generi e alle mode, orpelli dei quali si sono sempre vivamente infischiati, proseguendo cocciuti e fieri in direzione ostinata e contraria, mai rinnegando la scelta primigenia, ché tanto it’s only rock’n’roll, e va bene così.

Di cose ne hanno fatte e viste, passate e superate tante da riempirci le pagine di una vita intera: hanno portato a spasso la loro arte ruvida e spinosa calpestando palchi e indicando la via, scolpendo nella pietra l’archetipico verbo immarcescibile, che è blues, solo blues, comunque blues, acido e nervoso, scarnificato e imbastardito, infarcito di garage, psichedelia, beat, rigurgiti punk, sfigurato e riletto, spinto al limite ed oltre, aspro e buio, virulento e tagliente, focoso e martellante.

Sulla ribalta, come quarantaquattro anni fa, sono rimasti il metronomo Tony Face, la divina Lilith e il mefistofelico Dome La Muerte, che di anni di anzianità nella band ne ha solo quarantadue, ma non fa grande differenza e non gli varranno comunque la pensione. Con loro, in sostituzione di Iride Volpi, l’ultimo arruolato è Marco Murtas, non proprio uno di primo pelo: ovviamente, non spendo tempo a ricordarvi chi nei Not Moving faccia cosa, è la questione del verbo essere di cui sopra.

I Not Moving, appunto: un faro, un riferimento, un’istituzione vivente, come la FAO, i Rolling Stones o Amnesty International, gente che rappresenta ed incarna un esempio di costanza, coerenza, caparbietà, incrollabile fiducia nel potere - più o meno salvifico, ma certo vitale - della musica come espressione artistica, altro che semplice intrattenimento.

Ora, siamo qui a parlare dei Not Moving sia perché è cosa buona e giusta, sia perché nell’anno del Signore 2025 i ragazzi pubblicano un nuovo album – e già questo è un evento - per La Tempesta Dischi/LaPOP, dieci tracce inedite, trentadue minuti all’arrembaggio, in barba al tempo cattivo e malvagio che scorre impietoso. Poi: lo intitolano “That’s All Folks!”, come alla fine dei cartoni animati, ci fanno sapere che si tratta dell’epilogo della loro carriera, l’atto definitivo, il punto-e-non-a-capo, e questo è sì un po’ triste perché sa di congedo, ma è anche una gioia, perché les garçons lasciano belli e vincenti al termine della battaglia, alive & kicking, duri & puri, tirati a lucido ed esuberanti che è una meraviglia.

E cosa scelgono come biglietto d’uscita? Una rock opera? Un triplo cofanetto? Una ristampa di “Sinnermen” con rarità e b-sides? Macché, vanno dritti al punto senza strafare, business as usual, c’era da aspettarselo. Nulla di cerebrale, di cervellotico, di avanguardistico: le dodici battute canoniche, storie di tutti i giorni, ricordi e suggestioni, memorie e illusioni, ritmo. Pezzi squadrati, ben scritti, ben realizzati, perfetti i suoni, il missaggio, la produzione, niente da dire, c’era da aspettarselo. La signora canta il blues, e con quella voce fa ciò che vuole; la band macina incessante la sua arte varia, sciorinando l’intero campionario con quella consapevole nonchalance concessa in dote solamente ai marinai di lungo corso.

Tra i solchi, ogni eco desiderata riemerge come un gradito regalo d’addio: dal passo sudista di “Soul of a Man” di Blind Willie Johnson al r’n’r’ esplicito e frenetico del singolo “But It’s Not”, dal boogie sornione di “On My Side” al piglio incalzante di una “Once Again” (uh, la voce!) che mi ha ricordato perfino i Cult di “Electric”, l’album è un florilegio di idee brillanti ed inesauribile verve, tenace compendio di esplosiva creatività refrattaria alla resa.

C’è un sitar ammaliante in “Ray of Sun” (uh, la voce!), una linea melodica memorabile nell’up-tempo battente di “Saphran Road”, una rasoiata di Dome nella cover di “The Devil with the Blue Dress On”, ma proprio quando ti sta per scendere la lacrimuccia, perché pensi che – ahimé - sei al cospetto del canto del cigno dichiarato, dell’improcrastinabile epitaffio, ti accorgi che, in fondo, tutto sembra così naturale, così spontaneo, così dannatamente normale.

E ti rendi conto che questo è un grande disco, semplice e diretto, sentito e viscerale, sincero e fedele alla linea, ma la cosa non ti sorprende, e fai finta di niente, perché i ragazzi ti ci hanno abituato, lacrimuccia o no.

Voglio dire: è un po’ come quando sono arrivati gli Eruli nel 476 d.C. e Odoacre ha messo fine all’Impero romano d’Occidente, senza colpo ferire, quasi in silenzio, come fosse qualcosa di così dannatamente normale. Cioè: evento epocale, ma c’era da aspettarselo. (Manuel Maverna)