ANDREA CIOLINO "Viso blu"
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Ammantato di un insolito, singolare fascino, sottilmente ipnotico ed impregnato di riflessività, di filosofia, di profonde digressioni sulla vita e i suoi perché, “Viso blu” vede l’esordio solista di Andrea Ciolino, lucchese classe 1993, figura sfuggente e defilata, artista impegnato in svariati progetti che travalicano il mero ambito musicale.
Intriso di elaborate, eleganti tessiture armoniche, impreziosito da testi ermeticamente essenziali, il cui taglio visionario arricchisce il quadro generale all’insegna di un fosco esistenzialismo, l’album richiama suggestioni psichedeliche d’antan e divagazioni che lambiscono derive prog, delineando un microcosmo vibrante e noir, traboccante di intuizioni, idee, sviluppi.
Nove tracce ondivaghe ed imprevedibili, avviluppate – vezzo e firma - in atmosfere gradevolmente retrò, disegnano i confini di una poetica stringata e decadente, tratto distintivo di un lavoro cui mai difettano plumbea grazia ed incombente intensità.
Aperto dal manifesto programmatico de “L’oblio”, tagliente dichiarazione d’intenti stipata a forza in un chorus ampio ed incalzante, l’album dispensa tutta la sua sibillina inafferrabilità in trentatré minuti oscillanti fra sovraccarica tensione ed infida morbidezza, demandando ad un linguaggio mutevole ed intrigante l’arduo compito di evocare ed esorcizzare demoni, in una ridda di domande scomode, risposte mancate, precaria pacificazione.
Se la title-track regala sinistre profezie, in bilico su un precipizio mascherato da un accattivante refrain, “La nostra terra” indica l’inevitabile epilogo, estendendo il suo opprimente pessimismo ad una nefasta cosmogonia rovesciata, epitaffio completato dall’aspro messaggio di “Perduta lacrima”, graffiante e amara.
Ma c’è spazio anche per molto amore sui generis, sebbene trasfigurato e viscerale, traballante e incerto, come quello descritto nel languido slow de “L’occhio di venere”, celebrato nell’incedere rilassato di “Dimmi tu”, sublimato nell’afflato agrodolce, melanconico e desolato, di “Al confine”.
In coda, i cinque minuti fluttuanti di “Amorevole notte”, introdotti da un synth à la Cure e scossi da una palpitante variazione ritmica, chiudono, in equilibrio instabile su innumerevoli interrogativi, un album di sorprendente vitalità, pungente e turbato, ammaliante e tenebroso, foriero di un’inquietudine che giace celata sotto le sembianze di un’effimera, apparente dolcezza. (Manuel Maverna)