recensioni dischi
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PEARL JAM  "Yield"
   (1998 )

Nel 1996 uscì “No Code”, un disco incapace di mantenere alta la carica nevrotica e catartica del predecessore “Vitalogy” e che andava quindi a sviluppare aspetti meno centrali per la band; il cantautorato ipnotico di Vedder prendeva il sopravvento, mettendo parzialmente a tacere quel mare in tempesta che era stato il disco del ’94. Il quinto disco dei Pearl Jam tenta invece di alimentare nuovamente quel fuoco che bruciava nell’animo di chi ascoltava una “Rearview Mirror” o una “Corduroy”. Lo fa con coscienza delle proprie potenzialità e sapendo dove andare a parare. Il suono che ne scaturisce risulta sicuramente meno viscerale rispetto a prima, più studiato, ma ugualmente potente ed efficace. Nella sua complessità non può comunque vantare una policromia pari a “No Code”, ma si tratta pur sempre di un distillato del suono più virulento dei Pearl Jam, un suono che va a riprende i più classici riferimenti hard rock quali Led Zeppelin e il cantautorato di Neil Young. In un’ipotetica semplificazione, dopo i primi tre dischi grunge (anche a livello di attitudine), troviamo un disco riflessivo e quasi onirico, per poi riprendere la strada maestra dell’hard rock tempestoso, con “Yield” appunto. “Brain Of J” è un vorticoso trip acido. Un brano che arriva subito al punto, come non lo si sentiva da tempo. Chitarre stridenti, ma furbescamente ricamate su temi semplici ed efficaci. Insomma, un caposaldo della discografia dalla band, nonché uno dei brani più riusciti del disco. “Faithfull” è un altro episodio stupendo, uno dei momenti più epici, ma al contempo disorientante. Forte di un Vedder ispirato e di un continuo deflagrare di chitarra, è un caos paradisiaco, in cui le eco si inseguono e si mescolano alle acri distorsioni. “No Way” ha un incedere più lento ed il canto si adegua benissimo. Le sfumature vocali di Eddie sono qui davvero suggestive. Sul versante melodico si impone “Given To Fly”, una perfetta riesumazione dell’hard rock più enfatico del gruppo. Una strofa strascicata ed un esplosione fragorosa nel ritornello vanno a connotare questa carismatica rappresentazione messianica, anche a livello di liriche; “He floated back down…But first he was stripped and then he was stabbed”. “Do The Evolution” è una caustica sferzata di chitarre, l’approccio è divertente e ben caratterizzato. “MFC” è pregna di pathos, con delle originali trovate sonore; ma lentamente in disco si spegne su ballate poco significative quali “In Hiding” e “Low Light”. Già in precedenza erano apparse tracce di banalità, come in “Wishlist”, che si culla fin troppo ingenuamente in armonie trite e ritrite. “Pilate” è leggermente meglio. Ma è evidente come l’ispirazione esploda nei momenti più urticanti e veementi. Nella più classica tradizione PJ, troviamo anche un paio di diversivi; il divertissement “Untitled”, che dal punto di vista del messaggio non ha niente di divertente. La disorientante “Push Me, Pull Me”, uno dei vertici psichedelici della band, una eco continua che si contorce schizoide ed anfetaminica. Gli 8 minuti finali di “All Those Yesterdays” passano senza troppe pretese, con uno stralunato finale dai toni ambigui. In conclusione, un disco riuscito, che sa rianimare in modo più che buono il lato hard rock dei Pearl Jam, ma che mette anche in mostra un calo qualitativo ormai accertato. Non tutti i brani sono degni del nome che portano. Fortunatamente in “Yield” la maggioranza delle canzoni è di buon livello e riesce a sopperire ad alcune carenze. La formula ricorda quella di “Vs”, scariche di adrenalina intervallate da ballate intimistiche. Sotto il primo aspetto, questo disco non può essere considerato inferiore al disco del ’93, seppur manchi a tratti l’urgenza espressiva di questo, ma è il lato intimistico si mostra in questo episodio davvero lacunoso e mal proposto. (Fabio Busi)