recensioni dischi
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DEPECHE MODE  "Black celebration"
   (1986 )

Erano passati alla cassa con raccolte e altri singoli, anche se il ciuffettino biondo di Dave Gahan lo rendeva simile più ad un parente povero di Mirko dei Beehive che non a Simon Le Bon. E per il loro nuovo album, i Depeche Mode amplificarono ancora di più il dark del loro suono e delle loro atmosfere, in continua controtendenza ad un panorama musicale che cominciava a vedere le prime vittime. Gli OMD non sapevano che pesci pigliare, Gary Numan girava il mondo stizzito in aereoplano, e anche i mitici Kraftwerk perdevano i pezzi. Ma anche il dark, cribbio, non è che godesse di ottima salute, se pensiamo a come Robert Smith si era appena rinchiuso in un armadio per il video di “Close to me”, e la sua musica era sempre più commerciale rispetto alle pornografie di qualche anno prima. Loro no, e questa celebrazione in nero ne è la prova. Ancora privi di chitarre – o meglio, le usavano anche, ma per campionarne il suono e inserirle nei computer – i Depeche Mode erano pronti per le atmosfere monumentali di “Stripped” o “A question of time”, che sarebbero potuti diventare hit rock se solo lo avessero voluto (e i Rammstein anni dopo lo avrebbero dimostrato, con una cover della stessa “Stripped”). Ma c’erano anche tante cose scarne, cupe, a partire dalla titletrack per arrivare a “World full of nothing” o “It doesn’t matter two”, senza dimenticare la finale “New dress”, violenta critica ad un mondo che si interessava più ai vestiti di Lady Diana che non ai problemi reali. Elton John avrà sussultato, mentre loro se ne fregavano e con il video di “A question of time”, diretto dall’olandese Anton Corbijn, scoprirono che l’arte visuale poteva diventare chiave per ulteriore successo. (Enrico Faggiano)