recensioni dischi
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RADIOHEAD  "In rainbows"
   (2007 )

Questo disco, che nessuno possiede ancora materialmente, è probabilmente il più atteso dell’ultimo lustro, se non di più. Innanzitutto, “In Rainbows” è un lavoro che è nato e cresciuto davanti agli occhi di tutti, grazie al blog “Dead Air Space”, sul quale i membri della band hanno postato per circa due anni le loro idee, i loro dubbi, i testi delle canzoni, ma anche messaggi nascosti e criptici, artworks (verranno utilizzati per il discbox o meno? Chi lo sa), immagini, brevi video, stralci audio. Da questo punto di vista, il parto è stato lungo e sofferto, considerando che i primi post risalgono all’agosto 2005. D’altra parte, questa mossa si è rivelata assai azzeccata, riuscendo a calamitare l’attenzione dei fan e dei media per lungo tempo e suscitando l’interesse di molti. Non sono mancate le indecisioni, riguardanti soprattutto la produzione ed il contratto discografico. Inizialmente i cinque ragazzi di Oxford si affidano al produttore Mark Stent, per poi ripiegare sul fido Nigel Godrich, allontanato forse per il risultato deludente nella produzione di “Hail To The Thief” (2003), disco ripudiato dallo stesso Thom Yorke. Ciò che veramente mancava a quel disco non era la qualità dei brani, invece molto buona, ma piuttosto un collante ed un filo conduttore, che alla lunga rendeva il disco piuttosto piatto e poco coinvolgente. Vedremo in seguito come questo problema verrà brillantemente superato dal gruppo. Ma la sorpresa maggiore riguarda il contratto discografico; dopo una lunga serie di notizie che parlavano di pubblicazione rimandata al 2008, a causa della mancanza di contratto, agli inizi di Ottobre viene annunciata l’uscita del disco per il 10 del mese. La news viene data da un sito verso il quale la band aveva preso in precedenza le distanze. Una manovra astuta ed improvvisa, che ha scatenato un polverone. Il disco infatti viene pubblicato senza casa discografica, ed è acquistabile in due versioni. Una prima versione in mp3, scaricabile dal sito del gruppo ad un prezzo deciso dall’utente stesso, mossa rivoluzionaria che dà una spinta fortissima allo scambio di musica on line; la seconda versione di “In Rainbows”, quella fisica, è prenotabile direttamente dal loro sito e spedita in un cofanetto con 2 vinili, un secondo disco di bonus tracks e libretti con foto e testi, al costo di 40 £. È stato anche dichiarato che agli inizi del prossimo anno ci sarà anche una distribuzione ordinaria del disco, per non vincolare il pubblico a comprare il discbox, che rimane comunque un oggetto costoso e per fan accaniti. “In Rainbows” è quindi, al di là del suo valore musicale, un disco che verrà sicuramente ricordato. La band si è mostrata in questo caso all’avanguardia, sotto il profilo mediatico e commerciale. Non va affatto dimenticata l’iniziativa del Dead Air Space, basilare per il lancio di un’operazione di tale spessore. Il blog dei Radiohead ha stimolato, nell’arco di due anni, gli interessi di moltissime persone, ponendo le basi per il lancio on line del lavoro. Dopo circa dieci giorni di dibattiti, critiche ed elogi, finalmente possiamo ascoltare le dieci tracce che vanno a comporre la settima fatica del gruppo. Si nota fin da subito l’uniformità dei suoni, i brani sono legati da un quid musicale ben delineato e ricorrente. Emerge fortemente la presenza di numerose parti orchestrate, soprattutto con archi e molti arrangiamenti alla chitarra acustica. È evidente come i Radiohead abbiano voluto insistere su questo aspetto, essendo rimasti scottati dalla precedente esperienza in studio. Questa volontà di creare un disco compatto ed uniforme emerge soprattutto nella scelta di lasciare nel disco bonus alcuni pezzi ottimi come “Last Flowers”, “Go Slowly” o “Down Is The New Up”, ritenuta da molti un caposaldo della nuova stagione creativa di Yorke e soci, nonché fonte di ispirazione per numerose artworks di Stanley Downhood. Ciò che emerge è un mood più equilibrato e disteso, figlio diretto del pop raffinato di “Ok Computer”, ma filtrato attraverso l’esperienza poliedrica e totalizzante di “Kid A/Amnesiac”. Le nuove competenze elettroniche, che già nel 2003 non avevano convinto molto, vengono quasi totalmente eliminate. Ma ciò che rimane è la ricchezza di tessuti musicali e di arrangiamenti spiazzanti che avevano fatto la fortuna dei dischi di inizio millennio. Il brano più riconducibile allo sperimentalismo del passato è “15 Step”, incipit tumultuoso e pulsante, che ricorda vagamente “Pulk/Pull Revolving Doors”. Al beat insistente si mescola il canto spezzato ed enfatico di Yorke. La chitarra languida di Johnny Greenwood interviene solo in seguito, con il suo tocco subliminale, ed imprime un diverso e più pensoso mood alla melodia. Va sottolineata poi la complessità dal tessuto musicale, ricco di effetti digitali, grida di bambini, riverberi spettrali e trame sottili al synth. Un incipit ottimo, pieno di suoni taglienti. Non abbiamo ancora fatto in tempo ad assimilare il beat ossessivo della traccia di apertura quando esplode in tutta la sua carica sanguigna “Bodysnatchers”. Un riff grezzo ed un ritmo incalzante fanno da supporto ad un delirio quasi post punk. Una selva di suoni che si infittisce progressivamente, fino allo stacco centrale, per poi riprendere con maggior veemenza, fino ad arrivare al finale distruttivo. Probabilmente la canzone più ruvida e sferzante dell’intero repertorio Radiohead. Una vera perla. Con il terzo brano si ritorna su sentieri già battuti. La magnifica “Nude”, vecchia di parecchi anni, è la nuova “Exit Music” della band. Una nenia evanescente che fluttua nell’etere, accompagnata dalle sfumature gentili degli archi, che ondeggiano come il mare, gonfiandosi ed scomparendo continuamente, e da una batteria minimale. Un’opera di prima qualità, che va ad aggiungersi alla lunga serie di capolavori della band. Siamo su vertici assoluti, un vero e proprio canto a cuore aperto. I Radiohead hanno impiegato molti anni a trovare la forma definitiva a questa perla preziosa, ma ascoltandola capiamo il perché. La prova vocale è da brividi e l’arrangiamento ne esalta le qualità. Irripetibile. Il quarto brano è il più complesso. “Weird Fishes/Arpeggi” ha come tema principale un intreccio di arpeggi (come da titolo), già di per se molto straniante, a cui si interseca una melodia elegiaca e dolce. Il tutto è intelaiato in un crescendo di pathos, con incursioni di mellotron, effetti elettronici e tappeti di tastiere in continuo sovrapporsi. Il volume di suono cresce continuamente, in una corsa folle che implode improvvisamente. Un brano quasi progressive per la sua fioritura strumentale. La brillantezza dei suoni rimanda a “Subterranean Homesick Alien”, mentre il canto slanciato si ispira all’inveire del ritornello di “The Tourist”. Probabilmente è questa la canzone di “In Rainbows” con più rimandi ad “Ok Computer”. Uno dei momenti più intensi dell’opera. “All I Need” mantiene le atmosfere sommesse di “Nude”, ma lo fa con piglio meno trascendente. Un riverbero cupo si alterna a rintocchi di campanello, ci pensa poi un brusio vibrante a donare un tocco di tenebra al brano che, in un tripudio di suoni, cresce improvvisamente nel finale. La struttura melodica è blanda, sorniona, riflessiva; salvo esplodere in un finale catartico e stordente. Dopo cinque brani carichi e musicalmente ricchissimi, arriva la splendida “Faust Arp”, che funge da intermezzo rilassato e minimale. Troviamo infatti Yorke che ci delizia con una filastrocca incantata alla Syd Barrett, piena di allitterazioni e ripetizioni, che muta poi in una ballata acustica in puro stile Beatles. Gli archi supportano magnificamente la chitarra strimpellata, con repentini pieni e vuoti. Si riparte con il ritmo trip-hop di “Reckoner”, su cui viene ricamata una melodia dilatata, forse troppo. Rimangono comunque pregevoli alcuni passaggi in falsetto, soprattutto nel momento di stacco ritmico. Forse meno coinvolgente delle altre, ma sicuramente un buon brano. Arriviamo così ad “House Of Cards”, in cui la melodia sfumata ha il preciso scopo di porsi in antitesi al ritmo in evidenza. Il brano in sé non è particolarmente interessante, se non fosse per la serie di trovate ed effetti a cui viene sottoposto. Linee di basso che emergono all’improvviso, brusii, archi, eco, cori in sottofondo. Insomma, un brano molto strano e di difficile inquadramento. Forse la struttura è volutamente statica e ripetitiva, per permettere alla band di sbizzarrirsi, modificando e stravolgendo i suoni. Dopo due brani che fanno pensare ad un lieve calo di intensità, arriva “Jigsaw Falling Into Place” conosciuta anche come “Open Pick”. Ed è un tripudio di ricordi. Vengono alla mente le melodie sull’orlo di una crisi di nervi di “The Bends”. Grandissima prova di songwriting, un tributo postumo al pop inglese degli anni ‘90, in cui la melodia intensa è padrona, con un cambio di timbro, prima pungente ed agrodolce, concitato ed instabile poi. È forse l’episodio più asciutto e senza fronzoli dell’album. Il finale è lasciato alla nenia dronica di “Videotape”. La melodia più cristallina di tutte, sporcata da rumori concreti, loop elettronici ed una ritmica inusuale che emerge lentamente, fino a soffocare la splendida elegia di Yorke. Il pianoforte esprime una solitudine estrema, superata solo dal battito robotico ed algido che la sovrasta. “In Rainbows” riprende quindi il pop raffinato di “Ok Computer”; ma lo fa con un’uniformità di suoni ed umori molto affine a “Kid A”. Siamo piuttosto lontani dall’esistenzialismo depresso del lavoro del ’97; si tende piuttosto a trovare un equilibrio, formale ed emotivo. Mancano infatti i brani di rottura che rendevano quel disco così vivo e coinvolgente. Tale conflitto emotivo è assente in questo disco, ma la qualità dei brani e degli arrangiamenti non ha niente da invidiare ai migliori episodi pop del gruppo. Questo non significa che stia parlando di un’opera di maniera, perché non mancano episodi emozionanti e vividi; semplicemente, questo lavoro è stato fatto da persone con uno status psicologico ben più tranquillo ed equilibrato rispetto al passato. Un lavoro uniforme, compatto, senza mai nessun grosso crollo qualitativo. Un’opera di piena sostanza, senza nessun velleitarismo di avanguardia. Anzi, rispetto ai due dischi più sperimentali, sicuramente più creativi di questo, la band non si nasconde dietro alla forma, come poteva essere in “Amnesiac”, né dietro al concetto, come in “Kid A”. In questo senso, i Radiohead hanno tratto solo il meglio da ogni loro disco. Il fatto che si riprenda il pop del passato non impedisce alla band di inserire alcuni elementi pressoché nuovi per i cinque. È infatti evidente la nuova passione per le orchestrazioni e l’uso massiccio di archi. L’esperienza “Kid A/Amnesiac” risulta comunque formativa per lo sviluppo dei nuovi tessuti musicali. I suoni brillanti e magniloquenti di “Ok Computer” sono sostituiti da una trama orchestrale-acustica, supportata da una tavolozza di suoni molto ricca. Gli effetti elettrici, le eco, i synth, le distorsioni eccetera. “In Rainbows” è quindi un ottimo compendio di tutte le esperienze che hanno segnato la carriera dei Radiohead. Niente di particolarmente innovativo; ma riuscire a fondere con tale uniformità e naturalezza le diverse istanze della band non è compito facile. In tal senso, il disco è pienamente soddisfacente e riuscito. (Fabio Busi)