recensioni dischi
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ACE OF BASE  "The bridge"
   (1995 )

La dura vita di chi vende troppo. Riassunto. Avevano provato e riprovato, e con una formula semplice come l’uovo di Colombo (reggae da discoteca) erano riusciti a conquistare il mondo e paesi limitrofi, partendo dalla Svezia e da una storia nemmeno troppo soft dietro, con accuse di nazismo ad uno dei componenti, smentite ma non poi tanto. “Happy nation” li portò nelle classifiche per oltre un anno, con singoli che uscivano con lo stampino ma, anche, con continuo successo. E, come se la gente ad un certo punto si fosse stufata di ballare incessantemente “All that she wants”, “The sign”, “Hear me calling” e simili, una volta terminato lo spin del disco erano già tutti pronti a mettere il quartetto nel cassetto. Così, quando uscì “The bridge”, l’impressione fu di un prodotto già fuori moda prima ancora di farsi sentire: d’altra parte, la formula era già trita e ritrita, e l’idea di un dejà-écouté era forte. Sia chiaro, qualche copia venne venduta, se ne potevano contare sei milioni in giro per il pianeta, ma quasi di inerzia. “Lucky love” entrò stancamente al numero uno delle classifiche, così come i successivi singoli, ma l’album sembrava, indubbiamente, affaticato: si cercava di uscire dalle discoteche per cercare un pop a tratti anche acustico, con il risultato di non riuscire ad essere ipnotici come in precedenza. Qualche ballata, meno sintetizzatori, diciassette pezzi – troppi, troppi, troppi, per chi già non faceva dell’ecletticità la propria arma migliore – e alla fine il grazie e arrivederci. Ohibò, ci sarebbe stato un altro album di discreto successo (“Flowers”, del 1998), ma è difficile risalire la china quando eri salito troppo in alto, troppo in fretta. Insomma: se volete un sunto degli AOB, fermatevi ad “Happy Nation”. Il resto è mancia. (Enrico Faggiano)