recensioni dischi
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U2  "Under a blood red sky"
   (1983 )

"Under a blood red sky" registrato dal vivo e uscito sotto forma di mini-Lp è uno dei vertici discografici degli U2, una delle pochissime band attive a partire dagli anni 80 capaci di assurgere allo status di "mito" del rock al pari delle formazioni "classiche" nate e cresciute nei decenni precedenti. Per una delle formazioni rock tra le più amate e famose di sempre, analizzare proprio questo disco dal vivo risalente a 20 anni or sono può apparire operazione azzardata, ma una recente dichiarazione di Adam Clayton è a tal proposito illuminante. A distanza di anni e in prospettiva, dice il bassista, tutti i primi lavori discografici sembrano valere poco più di una registrazione demo; una valutazione condivisa da tanti altri musicisti rock che nella propria carriera musicale partendo da un’istintiva vocazione per il "live" tendono nei primi lavori in studio a trasferire tale e quale il sound caldo e sudato della sala prove trascurando, vuoi per scelta, vuoi per inesperienza, vuoi per limiti di budget, il lavoro certosino di produzione e di costruzione creativa del sound su multitraccia. Questo live si può quindi considerare come il miglior lavoro del gruppo fino a quel momento, superiore ai primi tre dischi in studio, l'occasione ideale per la band per documentare tutta la propria carica esplosiva in concerto. Il quartetto irlandese si presenta dal vivo nella più classica delle formazioni. Leader e guida del gruppo è Bono dalle qualità vocali potenti e dall’innato carisma che lo rendono probabilmente il più rappresentativo frontman degli anni 80. La sezione armonica è affidata interamente a The Edge, solido chitarrista e gran maestro nell’effettistica ritmica, qui assai prezioso anche nel ruolo di corista. La sezione ritmica vede il trascinante, preciso e mai banale Larry Mullen Jr. alle percussioni e Adam Clayton al basso. Quest’ultimo è la lampante dimostrazione di come un musicista dalle limitate capacità tecniche possa perfettamente amalgamarsi nel sound di una rock-band e trarre il massimo profitto da linee di basso tanto semplici quanto incisive. "Under a blood red sky" raccoglie le migliori canzoni tratte dai primi tre album ("Boy", "October" e "War") e dai primi 45 giri, dalle quali emerge chiara la matrice post-punk della band: canzoni dirette e senza fronzoli, riff taglienti, una ritmica incisiva e vibrante e, su tutto, l’interpretazione calda ed evocativa di Bono. Con otto tracce per un totale complessivo di 35 minuti di musica, gli U2 dimostrano qui di possedere quell’energia misteriosa e rara capace di trasformare un concerto rock in un evento unico e memorabile. Dopo questo live la band vedrà crescere a dismisura la propria fama planetaria grazie al bellissimo "Unforgettable fire", forse lo zenith creativo dell’intera produzione U2 e l’ultimo lavoro che può in qualche modo essere annoverato nell’arcipelago new wave. In seguito l’attività, che si protrarrà costante fino ai giorni nostri, vedrà la band alternare prove di indubbio valore ("The Joshua three" e "Achtung baby" su tutti) e discutibili cadute di stile con ammiccamenti sempre più forti verso il pop disimpegnato. L'apertura del disco è affidata all’imperiosa batteria che introduce la prima bellissima canzone del disco, "Gloria", uno stupefacente condensato di energia e melodia rock che sottolinea la vocazione religiosa del gruppo, da sempre impegnato per la causa pacifista e vicino a una sorta di cristianesimo radicale. La strofa trascinante e sorretta dal riff di The Edge ci conduce all’epico ritornello dove Bono ha libertà di spaziare con la propria voce sui ricami effettistici della chitarra e dove l’ispirato basso di Clayton svisa sulla cassa in quattro di Mullen. "11 o'clock tick tock", uno dei primi 45 giri degli U2, concede un attimo di tregua con i sognanti falsetti di Bono ma subito si riprende quota con la successiva e serrata "I will follow", dove i riff della chitarra sono protagonisti. Nella sognante "Party girl" le incertezze soliste del grande The Edge si fanno perdonare anche se la canzone è forse l’episodio meno riuscito dell’intero album. La successiva e immortale "Sunday bloody sunday" è introdotta dal pattern rullato di batteria su cui si inseriscono l’immortale riff di The Edge e il vocalizzo di Bono. La canzone, tratta dall’album "War", e caratterizzata da una struttura semplice e immediata, si può annoverare tra i più grandi inni del rock e a 20 anni di distanza suona ancora fresca e attuale. Un biglietto da visita che permetterà, insieme a "Pride", singolo estratto dal successivo "Unforgettable fire", di proiettare gli U2 nell’olimpo del rock. Il brano che si rifà ai tragici e sanguinosi eventi di Derry del 1972 non è, come sottolinea Bono nel concerto, una canzone di ribellione, ma un inno di pace. La torrenziale "The electric co" fa crescere ulteriormente l’adrenalina nell’ascoltatore. La canzone è soprattutto un notevole saggio della maestria di The Edge nel costruire serrati tappeti ritmici, carichi di effettistica, tecnica che lo renderà famoso e particolarmente originale nel panorama chitarristico della new wave inglese. Forse il solo Robert Smith dei Cure sarà capace in quegli anni di risultare altrettanto riconoscibile e originale. La bellissima "New year’s day", costruita intorno al sognante giro di piano suonato da The Edge, offre un altro saggio della forza vocale di Bono e della qualità compositiva della band, che riesce a equilibrare energia e leggibilità, forza e melodia, in un tutt’uno dall’impatto esplosivo. Memorabile il finale di "40", dolce e struggente galoppata verso l’infinito ovvero l’interminabile e incancellabile momento dell’addio al concerto e del ritorno alla realtà. Il bel riff ipnotico e suadente di basso si muove sinuoso sulla batteria sincopata, mentre Bono invita il pubblico ai saluti e ai partecipati cori di rito. La canzone si spegne lentamente ma non le emozioni che ci trasciniamo da un ventennio. Grazie U2. (Sigfrido Menghini)