recensioni dischi
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GOOSE  "30:40"
   (2009 )

Il gruppo è nato nell'estate del 1998 con il nome Mama Goose, e fin dal momento della sua formazione ha lavorato intensamente per creare e promuovere la propria visione musicale e culturale. Nella primavera dell'anno successivo iniziano a registrare il loro primo disco. "Uomini e Tordi" viene inciso per la Lowhole records, sigla che raggruppa alcune band indipendenti di Sassari. La band ha in seguito inciso un promo con i brani di un nuovo lavoro, orientato su sonorità in bilico fra rock'n'roll e power pop rumoroso. Nel frattempo "Uomini e Tordi" ha ricevuto diverse recensioni molto positive dalla stampa nazionale (Buscadero, Rockit, Toastit.com) e regionale (La Nuova Sardegna, Il Quotidiano). Il marchio di fabbrica dei Goose è una ben dosata miscela di energia e melodia, rabbia e tenerezza, con una forte dose di ironia e con un attenzione particolare ai testi. Le influenze musicali più dirette sono il rock e il pop degli anni '60 e '70, ma anche il blues, il country, il punk, con alcune componenti più innovative e moderne. Dal punto di vista culturale, i punti cardinali della visione dei Goose risiedono soprattutto nella letteratura della lost e della beat generation americana. La loro è street poetry, lontana dalla retorica, che ha l'ambizione di parlare dritto al cuore ed alla mente, senza artifici linguistici. Il gruppo ha da sempre svolto una fitta attività live. Fra le uscite più importanti le date in apertura a Verdena, Afterhours e Paolo Benvegnù. Nel 2005 inizia la collaborazione con Paolo Messere e la Seahorse Recordings di Napoli, con cui incidono il primo full-length con il nuovo nome Goose. “Tutto Come Allora” è ben accolto dalla critica sulle maggiori riviste specializzate italiane e sulle webzine più importanti. Dopo il tour che ha accompagnato il primo disco i Goose presentano “30:40”, la loro seconda creatura. Stefano Sotgiu, voce e chitarra della band, presenta così il nuovo album: “30:40 è la storia di un decennio di vita, quello che porta all’età adulta, almeno secondo il metro di giudizio attuale. Un decennio di cui oggi parlano tutti: i media, la politica, la cultura. E’ il decennio della precarietà, della lotta per l’affermazione, dell’emergere del futuro, dei figli, del declino di ciò che era stato il tuo passato. Il disco descrive questo percorso dal punto di vista della provincia italiana (Sassari rappresenta in pieno l’idealtipo in questione con l’aggravante – o il vantaggio? - dell’insularità) e vuole avere – sommessamente - un taglio generazionale. Vuole parlare chiaro a tutti, con un linguaggio non troppo metaforico e astruso, né sciatto, come spesso avviene nella musica italiana. Con lo stile Goose. Vuole parlare a chi vive o ha vissuto quest’età cruciale. Gli vuole parlare delle preoccupazioni, delle perdite, delle malinconie, delle gioie del fare questo passo nella propria esistenza. 30:40 è, infatti, anche un punteggio del tennis, della partita metaforica che ognuno di noi ingaggia con la vita e le sue sfide. E chi serve è sotto. Il tuo contendente ti sta battendo. Un senso di inadeguatezza che pervade forse un’intera generazione. Quella di chi ha un soffitto di cristallo sulla testa. I riferimenti culturali, letterari e musicali dei Goose sono molti. Stanno principalmente nella cultura anglosassone. Gli anni di inizio secolo in America, il country-folk (Woody Guthrie, la Carter Family), John Fante, la lost e la beat generation negli anni ’50, gli anni ‘60 (Dylan, Neil Young, Beatles, Stones, Byrds, il cinema, Butch Cassidy, Piccolo Grande Uomo, Il Laureato), il riflusso degli anni ’70 (Big Star, Lou Reed, il gonzo-journalism di Hunter Thompson), gli anni ’80 (Paul Auster, i primi R.E.M., il Paisley Underground, i Church, i Go-Betweens, gli Smiths, Wim Wenders), gli anni ’90 (Nick Hornby, Travis, Wallflowers, Counting Crows, Uncle Tupelo, Jayhawks, Son Volt, Wilco, gli italiani Flor de Mal nella musica, il cinema dei fratelli Coen e Jim Jarmusch). Ma tutto, veramente tutto passa per il filtro-Goose. Non rimane traccia visibile di tutto questo. Il lavoro è profondamente personale. Nel senso che parla delle nostre vite senza grandi concessioni ai gusti di ciascuno”.