recensioni dischi
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DEPECHE MODE  "Delta machine"
   (2013 )

Trentennale carriera che nell’ultimo ventennio, diciamo da quando Dave Gahan ha cercato in tutti i modi di porre fine non solo ai Depeche Mode ma anche a se' stesso, ha avuto costanti uscite quadriennali. Difficile porsi, per il trio di Basildon, in un mondo che va veloce, velocissimo, ma loro riescono da sempre ad infilarsi in una nicchia neutra, assolutamente lontani dal poter essere relegati nell’ambito del revival ‘80s, ma nemmeno con le carte in regola per proporsi nel mondo dei quindicenni. Però, a differenza di tanti soggetti con ormai l’anagrafe oltre quota 50, ogni disco dei DM è atteso, atteso, e alla fine vola alto in classifica, a prova che, a quanto pare, qualcuno che risponde quando loro citofonano c’è eccome. “Delta Machine”, però, è un disco che va ascoltato e riascoltato, perché di primo acchito potrebbe apparire stonato: avvertiamo subito, qui devono astenersi i fan della darkwave di “Black celebration” e di “Music for the masses”, perché è palese che quella band si è esaurita, quando Gahan iniziò a urlare “Condemnation”, nel 1993, scoprendosi amante di un certo blues-gospel che, con i sintetizzatori, c’entrava come i classici cavoli a merenda. Da quel giorno la band è cambiata, ed è chiaro che questo disco è figlio della nuova epoca, cercando di andare ancora più oltre i classici clichè antichi ma anche dimenticando le cose meno vetuste come “Precious”, del 2005. Qui si tratta di un curioso blues elettronico, e laddove un tempo si distorcevano i suoni con il campionatore qui si cerca di mischiare il synth con chitarre stirate attorno alla voce di Dave Gahan. C’è da inorridire, per chi ricordava quello che erano, ma superati i mal di stomaco evidenti per l’inserimento di nuove sonorità c’è modo e maniera di restare sazi, perché tutto sommato il prodotto è un mix tra quello che poteva essere “Violator” e “Songs of faith and devotion”, e tante canzoni sembrano poi delle figliolette di quella “Personal Jesus” che, insomma, tanto male non andò. Insomma, ascoltatevelo un po’, specie se anche voi anagraficamente parlando non siete di primissimo pelo e ricordate di quando mettevate i Depeche nel walkman: si cresce, specie superando quel primo singolo, “Heaven”, che non deve far pensare ad un disco sonnolento. Ci si potrà sbagliare, ma questo non è male, per quello che riguarda l’ultimo ventennio della band. Che, comunque, c’entra poco con quello che era prima: prendere, o lasciare. (Enrico Faggiano)