recensioni dischi
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APRES LA CLASSE  "Luna park"
   (2006 )

Si presenta in una sontuosa veste grafica questo terzo lavoro in studio degli Apres la Classe, quintetto salentino attivo da un decennio all’insegna di un folk-rock dal vivace piglio gitano. I riferimenti sono quelli classici del genere, dai Modena City Ramblers - che apparivano più sinceramente roots-oriented e di differente spessore artistico - alla Bandabardò, passando per i Mau Mau - sebbene questi ultimi ponessero in maggiore risalto la componente etnico-dialettale – e citando indirettamente i Mano Negra. Nonostante i forti accenti ritmici contribuiscano in misura determinante a risollevarne le sorti, in un certo senso distraendo dalla pochezza dei contenuti, “Luna park” conserva intatti gli evidenti limiti strutturali di una forma espressiva che tende a cannibalizzarsi, prigioniera di schemi dai quali non vuole – o non può – uscire. Ecco allora l’alternarsi di ritmi in levare di chiara matrice ska e di cavalcate bandistiche simpaticamente e superficialmente caciarone (“I pirati neri e...” è pura idiozia fine a sé stessa), il tutto inframezzato da qualche episodio cantato in francese, a sottolineare l’apertura culturale propria del folk itinerante (ancora Manu Chao docet), in un susseguirsi spiazzante di tracce insignificanti e di brani invece piacevoli e ben costruiti. Il disco – ad esempio – si apre malissimo, con “La grande mela” che potrebbe provenire dal repertorio deteriore di Cremonini, con un brutto ritornello ed una serie di banalità liriche di maniera, ma si risolleva immediatamente col passo frenetico e la bella melodia di “L’era del fiore”, che prelude ad altri quattro brani (bellissima la fisarmonica di “Et un été ancore”) in grado di affascinare ed attrarre, promettendo sviluppi che – ahimè – non solo non arrivano, ma finiscono per naufragare in un finale a dir poco sciagurato. Alcuni brani (“Se spegni il sole”, “Perchè trasmetti solo stress?”) sono semplicemente orrendi, una copia abulica dei peggiori Litfiba post-Maroccolo, mentre altri (“La luna cadrà”, “Cerca lo scrigno”) sono riempitivi privi di mordente e – soprattutto – privi di idee che valga la pena trasformare in canzoni. Peccato, perchè la chiusura dialettale di “La leggenda dell’oro” varrebbe da sola il prezzo del biglietto, ma evidentemente si tratta di una strada che i quattro ragazzi non ritengono più di battere con convinzione. (Manuel Maverna)