recensioni dischi
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NEUTRAL MILK HOTEL  "In the aeroplane over the sea"
   (1998 )

Questo disco non mi piace. E non perchè sia un brutto disco, anzi: ha buone canzoni, ma gioca presuntuosamente a renderle brutte, ed il perchè lo faccia rimane un mistero. Il “trarre giovamento/dal non piacere agli altri” è – a conti fatti – un dato ricorrente nella storia della musica degli ultimi trent’anni, e la cosiddetta lo-fi è fenomeno non esente da questa deriva peggiorativa, una sorta di decadentismo del pop, una sperimentazione più figlia dell’estetica del loser che non della sublimazione della nobile arte. Questo disco non mi piace perché perde di vista la bellezza e – ciò che è peggio – lo fa apposta, volendo ad ogni costo “rovinare qualcosa di bello” affidandosi ostentatamente ad un understatement che finisce per apparire addirittura snobistico, anzichè sinceramente casalingo: è un po’ come ascoltare degli Arcade Fire che suonano male o – negli episodi più sostenuti – mr. Everett, alias E, alias Eels, ma in salsa più triste e meno sarcastica. Jeff Mangum è un folk-singer un po’ strambo che allestisce un bizzarro carrozzone infarcito di personaggi surreali, impulsi visionari ed intimismo ad effetto, risollevando un album non così originale (di fatto potrebbe essere un lavoro per sola voce e chitarra acustica) grazie ad arrangiamenti chiassosi e ad alcuni pregevoli spunti melodici nelle arie che canta: peccato che anche questi due puntelli vadano alla deriva in un marasma indefinito e caotico che intasa i brani senza farne lievitare l’intensità. Negli otto minuti di “Oh comely” Mangum sembra impersonare un busker mezzo sbronzo e malvestito che, con una vecchia chitarra acustica a tracolla, intona (anzi: stona) una interminabile litania in un registro vocale sgraziato e dilettantesco à la Will Oldham, secondo il copione ripetuto nella title-track (splendida sotto ogni altro aspetto) e nella cavalcata cantautoriale di “Two-headed boy”; nei brani più ritmati (“The king of carrot flowers, pt. 2 & 3”, “Holland 1945”, “Ghost”, tutte simili a demo-tape da cantina) gli inserti rumoristici creano un effetto stordente grazie ad un suono che resta disordinato, chiassoso e pasticciato, ma soprattutto inconcludente. E’ un album interamente basato sull’emotività, espansa per mezzo di un costante, nebuloso crescendo nel quale gli strumenti, anzichè amalgamarsi, occupano gli spazi rimanendo scollati: è un sound che sottrae omogeneità all’insieme sovraccaricando senza entusiasmare, colorando a caso senza disegnare. In definitiva, è una raccolta di ballate acustiche rese meno prevedibili dai contrappunti (deliziosi quelli di tromba), dal lirismo pregnante dei testi, dall’interpretazione vocale esasperata di Mangum, da alcuni sviluppi melodici inattesi non lineari e da qualche trucco disseminato qua e là, come il mesto dixie strumentale - pura New Orleans - di “The fool” o la nenia per cornamusa di “The penny arcade in California”: certo non è poca cosa, ma si tratta di composizioni che paiono accenni di canzoni (“The king of carrot flowers, pt. 1” ad un passo dai They Might be Giants, “Communist daughter”), buone idee lasciate incompiute, canzoni che sarebbero interessanti se solo fossero eseguite meglio e sviluppate con una completezza che spesso latita. Questo disco è come una splendida donna che abbia scelto consapevolmente di vestirsi male e di truccarsi ancora peggio al solo scopo di non suscitare l’ammirazione che avrebbe meritato se solo si fosse mostrata bella com’era. (Manuel Maverna)