recensioni dischi
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WOVENHAND  "Mosaic"
   (2006 )

Affinando nel tempo la propria sibillina arte fatta di inquietudine e fantasmi, lo spirito errante di David Eugene Edwards è stato capace di sublimare nell’arco di vari lavori del medesimo tenore un certo riconoscibile mood crepuscolare che lo annovera tra i più illuminati esponenti di un sottogenere talora impropriamente definito come “gothic-country”. Unendo suggestioni sepolcrali, atmosfere grevemente plumbee e retaggi del depresso folk-core che rese sottilmente grandi i 16 Horsepower (sua prima band), Edwards scolpisce nella pietra tombale del suo umore umbratile un album opprimente intriso di presenze misteriche e di incombente tragicità. Il tono dimesso che incombe su queste dodici tracce opprimenti spazia dal tribalismo pellerossa di “Winter shaker”, tesa fino allo spasimo, alla cupa introversione di “Swedish purse”, basata su una musica originale medioevale, passando per le citazioni ancestrali di “Twig” e per l’ossessivo incedere di “Elktooth”; la voce di Edwards si mantiene profonda, gutturale, lontana, strappata a qualche inferno parallelo e consegnata ad una penitenza eterna nel suo girovagare senza meta tra ombre maligne e spettrali essenze, contornata da violini, percussioni sorde, scampanellii catacombali ed un ottundente senso di dannazione. Più Eldritch che Tarnation, più Fields of the Nephilim che Handsome Family, in sostanza più gotico che folk; si tratti del macabro sabba di “Slota prow” o della toccante, ruvida ballata di “Dirty blue”, sfilano lenti nebulosi brani dall’andamento sbilenco in un disco di straripante intensità, il cui limite maggiore va forse ascritto ad un tono eccessivamente monocorde, arma a doppio taglio che rischia di farlo svanire come un’ombra nella caligginosa foschia serale. (Manuel Maverna)