recensioni dischi
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LOUISE ATTAQUE  "Louise Attaque"
   (1997 )

Prima ancora di nascere, crescere ed entrare per sempre nella hall-of-fame della canzone francese e francofona, i Louise Attaque erano quattro ragazzotti che facevano la gavetta suonacchiando in giro sotto il nome di Caravage. Poi cambiarono nome, scrissero una manciata di canzoni folk e si imbatterono in Gordon Gano e Warren Bruleigh – ossia i Violent Femmes, influenza sempre dichiarata -, che restarono affascinati a tal punto dal materiale proposto da decidere di produrre l’esordio della band. Era il 1997 quando l’album apparve sul mercato, catapultando i quattro ragazzotti nell’olimpo delle celebrità ed iniziando una scalata alle charts che lo portò a diventare nel giro di un anno e mezzo il terzo disco più venduto di sempre in Francia. La ricetta era semplice: una chitarra acustica, un violino campagnolo ed una ritmica serratissima – ricetta sempre gradita oltralpe, sebbene limitata all’ambito folk - scolpivano in tre minuti scarsi composizioni fresche, veloci e godibili per qualsiasi fascia di pubblico in qualsiasi stagione dell’anno. Il gioco era fatto, il mito costruito: i quattro ex-sconosciuti avevano appena segnato indelebilmente il rock francese, imbastardendolo col folk e ricollocandolo altrove rispetto ai celebrati e seminali Noir Desir, agli aggressivi Eiffel, ai teatrali Wampas, in pratica deviandolo in una direzione del tutto nuova. I primi cinque brani dell’album sono altrettanti attacchi a testa bassa, cinque sassate come treni in corsa, cinque ritornelli mandati a memoria da qualche milione di persone: l’attacco veemente di “Amours”, l’incipit di “J’t’emmène au vent” col suo singalong ciclico, l’amara confessione di “Ton invitation”, o la cavalcata di “Les nuits parisiennes” (col violino del maestro Arnaud Samuel che sembra letteralmente disegnare la canzone), sono fulgidi esempi di un’arte povera ma efficace che va dritta al punto senza indulgere in esperimenti, producendo un impatto devastante, quasi fisico. Ci vogliono sette brani prima di raggiungere “Arrache-moi”, che sepolta a metà disco regala la prima inattesa divagazione: su un teso rallentamento sostenuto dalla voce filtrata di Gaetan Roussel, il violino lacera il cupo rimbombo del basso mentre una serie di stop-and-go mascherati rendono il brano ancora più sinistro. Il tutto dura soltanto due minuti, la canzone naufraga senza svilupparsi restando sospesa a mezz'aria, spazzata via in un fiume di parole dalla dolcezza liquida di “Lea” (forse la loro hit più celebre) col suo reggae fasullo, il suo crescendo morbido ed una melodiosa cantilena, stroncata tre minuti più tardi dalla nuova vorticosa ripartenza di “Fatigante”, in un incessante saliscendi strumentale ed emotivo. I quattro brani conclusivi sono quelli che realmente cambiano il volto del disco: il clichè del folk gitano cede il passo all’arrancare percussivo di “Tes yeux se moquent”, straziata da una toccante tziganata di Arnaud, al tangaccio dolceamaro di “Vous avez l’heure”, ed al lungo divertissement con calembour annesso di “Toute cette histoire”, il brano più rockeggiante e disimpegnato (comunque un cavallo di battaglia delle esibizioni live), il solo oltre i cinque minuti di durata. Il sipario cala su “Cracher nos souhaits”, il pezzo più intenso ed una delle gemme dell’intero catalogo Louise Attaque, un palpitante, poetico crescendo vocale sorretto unicamente da poche note di basso distorto e dal violino di volta in volta sofferente, stridente, ferito e feroce di Arnaud, un violino che è la vera voce narrante di un disco la cui bellezza risiede nell’integrità e nella coesione del progetto più ancora che nella contagiosa verve dei singoli episodi. (Manuel Maverna)