recensioni dischi
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DIRE STRAITS  "Love over gold"
   (1982 )

Poco importa quanto di innovativo abbiano fatto i Dire Straits, poco conta che Mark Knopfler non abbia mai posseduto nè sviluppato grosse doti vocali, ed ancora meno significativa è la loro dipendenza dallo stesso Knopfler, padre e padrone di una creatura il cui splendore meriterà sempre un inchino. In un incrocio fra blues malinconico, accenni di country, musica d’atmosfera ed insistita ricerca di melodie trasognate, questa storica band albionica ha attraversato quindici anni di rock d’autore imprimendovi un marchio indelebile grazie all’unicità ed alla immediata riconoscibilità di un sound senza eguali. “Love over gold” è il disco chiamato a confermare il successo planetario dello storico “Making movies” (che conteneva, tra le altre, “Tunnel of love” e “Romeo and Juliet”, giusto per la precisione), impresa ardua ma non impossibile, per la cui riuscita Knopfler e soci si affidano a cinque soli brani, ciascuno dei quali racchiude in forme cangianti tutto il repertorio di arti magiche del gruppo. In apertura, la mini-sinfonia per chitarra parlante e tastiere di “Telegraph road” scorre come un fiume argentato per quasi un quarto d’ora, alternando ritmi, intermezzi e stili senza mai risultare appesantita nè tediosa, in un vortice di impennate e ridiscese repentine a colorare e sottolineare i molti passaggi della storia di desolazione e sconfitta che narra. A cotanta scintillante grandeur subentra la fumosa atmosfera densa e sospesa della celebre “Private investigations”, trafitta dal doppio assolo di chitarra classica in un groove singhiozzante che non deflagra mai, trattenuto di continuo dal passo esitante ed incalzante di basso, cassa e charleston, che ricamano ed incorniciano una melodia oscuramente memorabile. A fare da contraltare al brano stilisticamente più complesso giunge l’episodio più leggero dell’album, il twist sarcastico di “Industrial disease”, intermezzo easy e preludio al nuovo rallentamento della title-track. La chitarra di Knopfler, prima classica, poi elettrica, quindi di nuovo classica, crea qui l’ennesima dilatazione su un tappeto lievemente jazzy; la canzone si sviluppa sinuosa dando vita ad una soffice ballata notturna contrappuntata dal vibrafono e sospinta da una non convenzionale progressione armonica degli accordi a suggerire un senso di voluta incompiutezza. Il disco si chiude con “It never rains”, classico mid-tempo di otto minuti, gli ultimi tre dei quali occupati da un funambolico assolo di Knopfler che inanella una cascata di note gigioneggiando tra controtempi, acciaccature ed accenni disarmonici. Disco sontuoso a prescindere, lavoro manieristico ma di livello eccelso, splendido esercizio di stile e sfoggio di classe pura, un po’ come ottenere il massimo dei voti in un compito in classe perfetto senza nemmeno bisogno di studiare. (Manuel Maverna)