recensioni dischi
   torna all'elenco


THE JAYHAWKS  "Hollywood town hall"
   (1992 )

Lungi dal costituire una band seminale o imprescindibile, i Jayhawks di Gary Louris e Mark Olson hanno attraversato in punta di piedi gli ultimi venticinque anni di folk-rock americano proponendo la loro personale versione di quell’Americana tanto cara agli ascoltatori di oltreoceano e tanto radicata nella tradizione da rappresentare un assodato marchio di fabbrica nella storia musicale a stelle e strisce.

“Hollywood town hall”, datato 1992, è il breakthrough-album del quartetto del Minnesota, quello che di fatto può essere considerato il loro debutto in società - su etichetta American - dopo l’ accoppiata “Bunkhouse tapes”/“Blue earth” registrati per label indipendenti: notati da George Drakoulias, al tempo anch’egli agli inizi della sua promettente carriera di produttore, i quattro baldi giovani raffinarono il sound e licenziarono il loro primo prodotto per una major. Le radici affondano nel folk, nella psichedelia rurale (“Crowded in the wings” potrebbe provenire dal repertorio Eagles) ed in molto, moltissimo country, lezione mandata a memoria e rielaborata con rispettosa fedeltà rispetto ai canoni tradizionali del genere, qui imbastardito con un altrettanto canonico rock di stampo mainstream; caratteristica ineludibile di questa classica musica da viaggio, fatta di ballate mid-tempo in minore perfette per essere consumate on-the-road, è la basilare essenzialità, che si traduce in composizioni lineari dalla struttura semplice e dall’andamento tanto prevedibile quanto comunque gradevole ed accattivante.

Tra echi del Neil Young periodo “Harvest” (“Waiting for the sun”) ed accenni di rock sudista (“Clouds” e “Sister cry”, entrambe a passo di Creedence Clearwater Revival), Olson e Louris intonano a due voci (questo tipo di canto rappresenta forse sia il pregio che il limite del loro stile) tristi storie di provincia supportate da melodie spesso vincenti ed avvincenti, sebbene il debito del sound con gli anni settanta le privi di quella modernità che gioverebbe loro non poco: le canzoni sono valide, ma ricoperte ad arte da una patina di polvere che le rende inopinatamente superate, con quei coretti da country-bar e l’onnipresente doppia voce che rischia di precipitare ottimi brani in una caricaturale imitazione degli America (“Two angels”, bellissima e sprecata), di Simon & Garfunkel (la stucchevole “Take me with you”) o di Tom Petty (“Settled down like rain”). Gli episodi migliori, a parte la già citata “Waiting for the sun” che apre l’album su una bella cadenza chitarristica, si trovano nella parte conclusiva: lo squadrato talkin’ blues in maggiore di “Wichita”, benché leggermente affossato da un coretto insulso, si risolleva grazie ad una chitarra finalmente prepotente; la ballad spoglia e desolata di “Nevada, California” – unica traccia senza la doppia voce, se non nel ritornello – è perfetta nella sua quiete dimessa; la ballata dylaniana di “Martin’s song” chiude infine il disco sciorinando in tre minuti l’intero campionario di risorse che fanno di una bella canzone una autentica canzone americana. Disco pulito, di facile ascolto, privo di sorprese e per ciò stesso incapace sia di entusiasmare che di deludere, un lavoro tanto più piacevole quanto maggiore sia il disimpegno nell’accostarglisi. (Manuel Maverna)