recensioni dischi
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SUN KIL MOON  "April"
   (2008 )

Un disco di Mark Kozelek non è mai immediato, non è certo uno di quelli che ti catturano con contagiosi motivetti o con ritmi da dancefloor. Lo sviluppo dei suoi brani è lento e involuto, a spirale: melodie complesse avviluppano i sensi con inusitata gradualità, fino ad occupare tutto lo spazio disponibile in un angolo dell’anima più oscura che ciascuno di noi si porta dentro. Mark Kozelek è personaggio oscuro, uomo schivo che chi ben conosce descrive come ombroso, cupo e introverso, velato da un alone di tetraggine o soltanto da un sottile male di vivere che ne condiziona l’umore. Quello stesso spleen dal quale prendono le mosse le sue canzoni, dalle più elaborate dei primi dischi targati Red House Painters alle più intimiste e personali che ne segnano il percorso solista e l’oasi Sun Kil Moon. Per questo un disco di Mark Kozelek sarà quasi certamente lungo, lento, addirittura noioso, di una pigrizia triste e assonnata che non sembra tuttavia voler cedere al sonno, mantenendosi vigile ad un passo dall’oblio. Per innamorarsi della musica di questo tenebroso crooner non basta una canzone, serve almeno un album intero: dopo un’ora e più nella quale litanie indolenti prendono forma in un’ossianica densità, si prova facilmente un senso di straniante abbandono. Ad occhi socchiusi ci si culla nella penombra pomeridiana di un placido eden silenzioso, che restituisce soltanto l’eco lontana di suoni ovattati. Ma a tratti qualcosa si insinua furtiva strisciando sinistramente sullo sfondo di questo quadretto naif; una scossa, una scarica metallica, un serpente elettrico che deturpa la memoria serena di giorni perduti. Le fondamenta si scuotono, tremano dall’abisso nero di un cuore malato, per tornare a riassestarsi in una nuova, ritrovata, instabile quiete. Su tutto si stende un canto confidenziale e dolente che riesce ad instillare dubbio e mestizia nella sua semplicità sospesa a mezz'aria, come un fantasma in cerca di pacificazione. A partire dalla copertina sulla quale campeggia in un grigio-nero offuscato un vecchio lampadario oscillante, "April" è un’elegia funebre, la celebrazione dell’amata Katy (la musa di "Katy song" e molto altro) strappata alla vita da aspra malattia quattro anni prima. Mark, già incline alla melanconia ed al solipsismo, attende anni prima di vergare su disco il proprio commosso testamento spirituale, per evitare di sporcarlo con un sentimentalismo eccessivo, per regalare alla sua Katy l’ultimo, puro ed incontaminato afflato d’amore. E’ amore oramai sublimato, sereno, trasfigurato in una sognante trascendenza, ma ancora inevitabilmente segnato dal dolore sordo della perdita e dalla spoglia ineluttabilità del destino. L’apertura del disco è affidata ai nove minuti della languida ballata di "Lost verses" (che diviene irresistibile solo dopo numerosi ascolti), seguita dalla classica cadenza elettrica à la Neil Young di "The light". E’ l’anticamera del dramma, che si materializza coi suoi demoni in due brani paradossalmente lontanissimi dai canoni che in musica esprimono la tristezza: "Lucky man" col suo fingerpicking insistito ed il country sbilenco di "Unlit Hallway", il cui refrain ripetuto "breathe my love/wake my love/hold me my love" sfocia senza pausa nell’infernale (questa volta sì) rallentamento cacofonico di "Heron blue", forse il brano più tetro mai scritto da Kozelek. Sono sette minuti di una tensione buia quasi insostenibile, un nero sudario che avvolge i ricordi nel suo abbraccio gelido. Il martirio cede fortunatamente il passo alla ballata retrò di "Moorestown", che riaccende le luci sul palcoscenico desolato dove un uomo sta solitario, cantando di spettri e ombre. C’è tempo ancora per i dieci minuti di "Tonight the sky" (che riecheggia la "Make like paper" del repertorio Red House Painters) col suo delirio elettrico, e per i nove di "Tonight in Bilbao" in un'altra parentesi melodrammatica, prima di spegnere definitivamente i riflettori sulla melodia spoglia di "Blue orchids", toccante epitaffio che sa di pioggia ed erba bagnata. L'inciso di chitarra classica che lo accompagna potrebbe forse essere musica di angeli, ma di angeli che piangono. (Manuel Maverna)