recensioni dischi
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MARY GAUTHIER  "The foundling"
   (2010 )

Per motivi strettamente personali, riconosco di non riuscire a conservare una imparziale obiettività nel descrivere questo disco che risuona splendido alle mie orecchie – e soprattutto al mio cuore – e che rappresenta la catarsi finale di Mary Gauthier, autrice ed interprete country-folk la cui tardiva apparizione nello showbiz descrive solo una parte della ricerca che l’ha vista inseguire per lunghi e dolorosi anni la verità circa la sua vita. Mary Gauthier, 48 anni, un'esistenza tra l’infelice e lo scapestrato, è figlia adottiva: il tema dell’abbandono di cui Mary fu vittima, neonata, da parte della madre naturale occupa tutte le tracce di un album drammaticamente definitivo, piccole gemme che vivono del fatalismo benevolo di chi ha finalmente trovato requie al termine del viaggio. La ricerca incessante della madre naturale, il suo ritrovamento ed il resoconto della telefonata che ha rimesso in contatto per qualche fugace istante le due anime separate dal destino sono tutti condensati nella dolente ballata di “11 march 1962” (la sua data di nascita) e permeano la totalità delle canzoni, meravigliosamente scritte ed interpretate, ma anche mirabilmente prodotte da Michael Timmins dei Cowboy Junkies, che ha avuto l’indubbio merito di conferire ad un progetto così complesso, ambizioso e fortemente autoreferenziale, una veste sonora perfetta per esaltarne la strabordante intensità. “The foundling” (“La trovatella”) è un disco nel quale è impossibile scindere l’aspetto musicale da quello emotivo e biografico, disco che è al contempo epifania e testamento, cinico disincanto di fronte alla verità lungamente cercata e mostratasi identica a come Mary l’aveva prefigurata nel suo insistito, autoinflitto, intimo martirio personale; è un disco a tema nel quale il tema prevale su tutto, anche su canzoni dotate di uno spessore artistico innegabile, offerte a pochi intimi con uno stile unico, in grado di dispensare con apparente freddezza i semi di un doloroso gesto e di un passato da interpretare e comprendere senza volerlo cancellare. Dietro una lievità di sola facciata, suona allora semplicemente meravigliosa l’immensa tristezza spinta dalla fisarmonica a rivestire il valzer in minore della title-track, posta in apertura a fungere da presentazione e manifesto, così come a suo modo irresistibile è la tromba che puntella la swingante architettura 50’s dell’amaro shuffle “Sideshow”, o il violino distorto che contrappunta il bluesaccio sudista di “Blood is blood”, o ancora l’ up-tempo cajun di “Goodbye” che cela, dietro un andamento in apparenza scanzonato, l’ennesima drammatica riflessione sulla vita. L’indole umbratile di Mary predilige un passo lento, evidente nel carezzevole spiritual suicida di “Walk in the water” - con una chitarra noise lontanissima à la Red House Painters – nel country meditativo di “Sweet words” o in quello più sostenuto di “Another day borrowed”, ma soprattutto nelle tenui folk-ballads di “Mama here mama gone” (con un testo straziante) e “The orphan king”, forse i brani meglio adatti a supportare il talento e l’espressività sofferta di questa triste cantastorie, anima gentile e tormentata giunta in porto dopo avere conosciuto una tra le peggiori tempeste che l’oceano della vita possa offrire. (Manuel Maverna)