recensioni dischi
   torna all'elenco


MASSIMO VOLUME  "Cattive abitudini"
   (2010 )

Nel mondo della musica esistono tre categorie di band: quelle che propongono musica tradizionale (a qualsiasi genere essa possa essere ascritta, dal metal al rap), quelle dedite alla musica sperimentale, e i Massimo Volume. Benchè il gruppo di Emidio Clementi venga talvolta erroneamente inserito nel novero delle formazioni indie-rock o art-rock, dallo sperimentalismo lo ha sempre separato la mancanza di esplicito ricorso a stranezze formali o alla ricerca insistita di trucchi ad effetto con la sola finalità di spiazzare l’uditorio mediante la provocazione: prerogativa di Clementi e soci è invece la ricerca di una diversa forma espressiva che vuole sì raggiungere il pubblico, ma senza confonderlo, semplicemente offrendo all’audience una forma d’arte che si situi ad un livello inusuale e che non necessiti di stupire o sorprendere con artifizi da circo. In questo contesto, che non è un semplice reading – Mimì interpreta i suoi testi con piglio attoriale, non limitandosi a leggerli – la musica funge da complemento, benchè sia strutturata con saggia maestria in modo da produrre il massimo effetto evocativo se accoppiata ai versi recitati. Non si tratta di canzoni, perchè Mimì non canta, nè di poesia o narrativa accompagnata dalla musica, perchè i due elementi non possono essere disgiunti; è invece un’arte ibrida, più affine al cinema, come se quelli di Clementi fossero dei piccoli fragilissimi film: anzichè musicare scene visive, il crooner marchigiano racconta a parole quelle stesse scene che un regista mostrerebbe in video, col supporto dello stesso soundtrack. Purtroppo accade talora che la forza suggestiva dei testi giunga come smorzata anzichè amplificata: splendide da leggere se soltanto si trattasse di un libro, le liriche risultano più ardue da focalizzare se immerse nella musica alla quale sono legate. Un brano dei Massimo Volume si può con ricordare solo con estrema difficoltà, men che meno lo si riesce a cantare sotto la doccia o in coda nel traffico: lo si può richiamare alla mente, ma non lo si possiede mai del tutto. Dove più i quattro si avvicinano ad essere una band che propone musica tradizionale è nelle code strumentali (quella trasognata di “Coney Island”, quella noise di “Via Vasco de Gama”, quella sci-fi di “Un mondo dopo il mondo”) o nelle poche accelerazioni, sempre sghembe, nevrotiche e stratificate (“Litio”, ancora ispirata dal Leo Mantovani di “Fuoco fatuo”, o la perfetta “Fausto”, dedicata a Fausto Rossi e mirabile nel raggiungimento di un raro equilibrio fra testo e musica), ma per il resto dell’album – che è perfetto, sia chiaro – scontano la propria inevitabile condanna a vita, costretti dalla peculiare scelta artistica a non poter segnare una nuova via, privi come sono sia di padri che di figli (ad eccezione, tra mille necessari distinguo, degli Offlaga Disco Pax). La loro è pura sublimazione di un’arte della quale sono i soli artefici, custodi di un mito segreto nato in una nicchia ed in quello stesso angusto antro confinati in un perpetuo esilio autoindotto. I Massimo Volume resteranno sempre un act irripetibile che corre lungo una strada parallela a quella seguita dalla musica mainstream, due percorsi che non si incontreranno mai (ci provò Manuel Agnelli a convincere l’amico Mimì nello scialbo “Club Privè”, che dimostrò una volta di più l’impossibilità di approdare ad una comune riva), due modi incompatibili di trasmettere emozioni, incentrati su una differente filosofia e su concezioni diametralmente opposte della costruzione di una canzone. I Massimo Volume sono condannati dalla propria genialità a rimanere nè più nè meno di ciò che sono: non sono una retta, bensì un punto che non può cambiare nè muoversi, un punto del quale si potrebbe anche non accorgersi mai. I Massimo Volume sono un gruppo probabilmente unico al mondo, finanche interessante ed intrigante, a patto di accettarne il gioco: ma non sono – nè mai saranno – un gruppo importante per la musica nè per la sua evoluzione. Arroccati da vent’anni sulle proprie posizioni con una staticità che ha pochi eguali e sulla quale difficilmente potranno intervenire senza snaturarne l’essenza, continuano a replicare il medesimo clichè, senza mai variare il copione: non sono avanti, al limite sono altrove. (Manuel Maverna)