recensioni dischi
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GUILLEMOTS  "Through the windowpane"
   (2006 )

I Guillemots sono un quartetto artistoide inglese che ha debuttato sulla lunga durata nel 2006 con questo “Through the windowpane”, album che si caratterizza per una certa freschezza melodica unita ad aperture quasi sinfoniche e ad un canto (quello del leader e fondatore Fyfe Dangerfield) arioso e teatralmente stentoreo. L’opener “Little bear” rappresenta già un eloquente biglietto da visita: ad una lenta intro strumentale simile ad un soundtrack per il cinema, subentra un testo intimista sorretto da una soffusa cadenza tastieristica che crea un bizzarro effetto di trasognata trance emotiva, con il canto che vaga ad un passo da Robert Smith e dalla sua superba “Plainsong”. La successiva “Made-up lovesong # 43” accelera il ritmo, cambia registro e va a parare dalle parti degli Housemartins, salvo collassare in un minuto di divagazioni strumentali inconcluse, preludio alla bella cavalcata del primo singolo “Trains to Brazil” (incentrato su un sanguinoso episodio di cronaca), anch’essa discendente diretta della “Why can’t I be you?” dei Cure, sebbene maggiormente virata su atmosfere e sonorità jazzy. Il rischio ovunque presente è quello di insistere eccessivamente su costruzioni mielose e sdolcinate che grondano melassa indesiderata appesantendo composizioni di per sè non irresistibili a livello di scrittura. E’ il caso del ballabile dissonante di “Redwings”, che invita allo sbadiglio per sei minuti, o della molle, tediosa, arrancante “If the world ends”, o ancora dell’ eterea “Come away with me”, che lambisce territori ambient vittima dell’ennesima saturazione nell’arrangiamento. Il disco funziona molto meglio quando il ritmo sale, dando vita a brani sempre in bilico tra un pop swingante ed accenni di fusion, come avviene – ad esempio - nella title-track; ma è un pop beffardo, troppo lento per invitare al movimento danzereccio, troppo sghembo e obliquo nelle armonie per lasciarsi canticchiare e/o imprimere nella memoria, sommerso com’è dall’onnipresente ridondanza sinfonica (“We’re here”). Si alternano sketch melodrammatici spinti da una insolita attitudine ad una sbilenca commistione di influenze, che spaziano dai Cocteau Twins ai Fairground Attraction, e dal lirismo romanticheggiante di Dangerfield, noioso a lungo andare. E’ piacevole il mid-tempo à la Elton John di “Annie, let’s not wait” che risolleva lo spiritual minimalista della cantilenante “Blue would still be blue” (5 minuti per soli voce e vibrafono), ed apre la strada al gran finale di “Sao Paulo”, undici minuti questa volta ben modellati con un crescendo imperioso a saturare il suono, tutto sommato gradevole e godibile nonostante una pomposa magniloquenza prossima a certe derive deteriori degli Arcade Fire. Band sostanzialmente inutile, con buone intuizioni sviluppate in modo quantomeno discutibile. Sono bravi musicisti, proprio tutti: peccato che non servano a nulla. (Manuel Maverna)