recensioni dischi
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LUCINDA WILLIAMS  "Car wheels on a gravel road"
   (1998 )

Di carattere aspro e spiccata personalità, la quasi sessantenne Lucinda Williams è un’autentica autorità nell’ambito dell’ultimo trentennio di alt-country a stelle e strisce; nell’arco di una decina di album, pubblicati ad intervalli sempre irregolari, la cantante della Louisiana ha dispensato lampi di classe cristallina alternati a qualche prestazione sottotono, senza tuttavia mai smarrire la coerenza stilistica e le doti artistiche che l’hanno consacrata come una delle grandi voci femminili del folk-rock d’oltreoceano. Con l’apporto decisivo di nomi di grosso calibro (da Gurf Morlix a Steve Earle, da Charlie Sexton fino a Roy Bittan che co-produce l’album), Lucinda verga nel 1998 il proprio indiscusso capolavoro, questo “Car wheels on a gravel road” dalla gestazione/realizzazione lunga e travagliata, conclusa con un completo rimixaggio quando oramai il disco era sul punto di essere stampato. Unanimemente riconosciuto da pubblico e critica come lavoro epocale per il genere (ottenne addirittura un 9.2 da Pitchfork ed una “A+” da Christgau, solo per citare due fonti tra le altre), l’album mostra la allora quarantacinquenne Williams al culmine della maturità artistica ed allo zenit della creatività, con assoluta padronanza del mestiere e consolidata consapevolezza dei propri mezzi. Il disco – che suona americano in modo smaccato – sciorina magistralmente una carrellata di caratteristiche peculiari del rock statunitense, qui nella sua versione imbastardita con quel country/folk e con quella tradizione rurale che hanno contribuito alla crescita ed all’affermazione di intere generazioni di songwriters. In stato di grazia, a Lucinda riesce (quasi) tutto con facilità apparentemente irrisoria: con voce impastata, sbavata, ubriaca, con le vocali aperte e strascicate del sud ed un velo di carta vetrata nelle corde vocali, la signora pennella tredici tracce semplici ed essenziali col fare svogliato di chi si è appena ridestato da una notte di molto alcool e troppe sigarette. Su cesellate ballad mid-tempo di stampo classico (bello l’opener “Right in time”, con un ritornello che ricorda molto Sheryl Crow, ma non da meno sono anche la title-track e “Metal firecracker”, tutte dotate di chorus contagiosi) Lucinda stende storie di fantasmi e di vita provinciale, impregnate di quell’aria on-the-road che fa molto polvere, stivali e roadhouse: e il disco funziona come deve, sebbene (in ciò risiede forse il solo limite del lavoro) stenti ad impressionare, quasi l’innesco scattasse solo ad intermittenza. Le canzoni sono valide, facili, intense, perfette per il più tipico dei lunghi viaggi in auto, canzoni schiette, a tratti scarne, quasi primitive nella loro spoglia, disadorna semplicità: buoni brani, certo, ma poco accattivanti, complice forse il massiccio ricorso a tonalità maggiori, più adatte ad un mood rockettaro anzichè a sorreggere l’intimismo spettrale espresso dai testi. E allora possono piacere il valzerotto sbilenco di “Concrete and barbed wire”, le melodie lamentose di “Greenville” o di “Jackson” (blues dimesso con una bella slide-guitar sullo stile di Gillian Welch), il boogie sudista dell’indemoniata “Can’t let go” (cover di un classico di Randy Weeks) e il rallentamento depresso dell’autobiografica “Lake Charles”; ma gli episodi migliori rimangono probabilmente quelli in cui Lucinda Williams è un po’ meno Lucinda Williams, ossia lo stomp cajun di “Joy”, con tanto di voce malignamente filtrata, e soprattutto la triste ballata dylaniana di “Drunken angel”, con un’armonica che trafigge una melodia tanto semplice quanto memorabile nella sua essenziale, asciutta perfezione. (Manuel Maverna)