recensioni dischi
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NORAH JONES  "Come away with me"
   (2002 )

La bella, giovane e talentuosa Norah Jones, figlia d’arte con un’autostrada a otto corsie spianata davanti, anche in virtù di doti canore e artistiche niente affatto trascurabili, è musicista, autrice ed interprete amata e nota in mezzo mondo, uno scricciolo di donna capace di vendere oltre venticinque milioni di copie di questo album di debutto datato 2002, punto di partenza per una luminosa e fortunata carriera che perdura ancora oggi ad un decennio di distanza dall’esordio con immutata popolarità e unanimi riconoscimenti. La voce flautata e melodiosa, mai invadente, sempre misurata e suadente di Norah suona rassicurante, un tenue registro notturno che scalda il cuore e dona conforto, sebbene la ragazza vada sul sicuro, protetta per quarantacinque minuti da una scrittura (quella di Lee Alexander e Jesse Harris in prevalenza) che non rischia nulla ed al contempo le permette di gigioneggiare senza spargere nemmeno una goccia di sudore. Il limite più evidente di “Come away with me”, ammesso che si possano ascrivere dei limiti ad un disco acquistato da venticinque milioni di persone, è l’assenza pressochè totale di varietà, che unitamente alla mancanza di sviluppo dei brani, racchiusi nei canonici tre minuti senza azzardare una virgola più del necessario, invita allo sbadiglio quando non si è nemmeno a metà disco; l’incipit rappresentato dalla celebre “Don’t know why” lascia così intravedere una classe cristallina capace di catalizzare l’attenzione anche dell’ascoltatore più prevenuto, ma già alla terza traccia (“Cold cold heart”, vecchio brano di Hank Williams, debole al pari delle altre due cover, “Turn me on”, brano minore di J.D. Loudermilk, e “The nearness of you” che scomoda addirittura Ella Fitzgerald) il tono inizia a scendere pericolosamente in un oceano di indistinguibili tinte pastello; certo, un paio di incastri di “Feelin’ the same way” sono da brividi, come il country indolente di “Lonestar” o lo slow fumoso in minore di “I’ve got to see you again”, impreziosito da un violino toccante, ma rimangono episodi la cui sfuggente bellezza stenta ad ergersi sul mare magnum di un comodo conformismo di maniera, timoroso di slanci od esperimenti di sorta. I testi, piuttosto elementari, trasudano un sentimentalismo di maniera adatto al personaggio, e se la brevità di queste esili composizioni giova sicuramente ad un lavoro che avrebbe altrimenti sofferto una insostenibile tediosità, dall’altro la rinuncia scoperta ad eleborare in qualche misura le trame proposte penalizza le qualità di un’interprete la cui caratura meriterebbe un repertorio più impegnativo e di maggiore spessore artistico. E’ musica priva di scosse o impennate, un morbido intrattenimento dall’appeal sempre vagamente jazzy (“Painter song” e “One flight down” su tutte), ma dagli esiti garbatamente radiofonici, una raccolta innocua di canzoni perfette per il piano-bar, per una serata romantica a due, per un elegante sottofondo in un bel ristorante: quello che resta è l’impressione di udire una voce celestiale al servizio di canzoni appena discrete, un po’ come la delusione che deriva dallo scoprire insipido un cibo dal profumo invitante. (Manuel Maverna)