recensioni dischi
   torna all'elenco


ALEXANDRE VARLET  "Dragueuse de fond"
   (2003 )

Come fumo nella nebbia, il genio di Alexandre Varlet rischia seriamente di perdersi nel mare magnum della musica francese, soffocato tra la più classica canzone d’autore ed un rock che – con pochissime eccezioni - stenta a proporre nuove forme espressive e fatica a trovare una dimensione propria. Varlet ci ha provato nel 2003, a scuotere le fondamenta di un edificio antisismico saldamente piantato al suolo, ha operato il tentativo improbo di fondere la chansonne tradizionale con una psichedelia morbida e visionaria, spostando il rock francese di molti passi avanti. Ho ascoltato questo disco decine di volte, sempre cercando di cogliere sfumature, idee, intuizioni sfuggite al passaggio precedente, ed ho lentamente realizzato come ogni singola traccia nasconda in sè un piccolo tesoro fatto di suoni, inserti, finezze e preziosismi che la arricchiscono man mano che si offre all’orecchio ed al cuore. “Dragueuse de fond” è l’album che spinse Varlet fino alle soglie della fama, dopo il promettente – ma acerbo – debutto di “Naïf comme le couteau”: giovane, bello, con una perfetta aria blasè, una voce profonda e sensuale ed un talento evidente per la musica, Varlet incarnava l’esatto archetipo dell’artista spendibile sul mercato. In realtà dopo il 2003 tutto naufragò: la carriera di Varlet fu rallentata, interrotta, soppressa da una serie di circostanze – personali e non – di varia natura, ma la sua capacità di scrivere con intelligenza e sensibilità rimase inalterata negli anni a venire, sebbene tra mille difficoltà. Con un approccio ai brani quasi sempre obliquo e pigro, evidente fino dall’incipit in bilico de “Le Q dans la coquille”, “Dragueuse de fond” raccoglie undici episodi che miscelano in atmosfere trasognate e sospese elementi mutuati dalla chansonne tradizionale (una certa enfasi nell’ampliare le melodie anzichè contenerle in forme più stringate), dalla new-wave anni ’80 e dal synth-rock dei tardi ’70. Nel caleidoscopio finiscono una miriade di rimandi, esperimenti, trucchi e trabocchetti, dalle dilatazioni di “Parfume”, che esplode in un finale immenso, alla mirabile sintesi di vecchio e nuovo di “Espèce de chien”, dalla psichedelia campestre di “Lune rousse acoquinée” a quella notturna di “Lubies”: c’è quasi sempre in sottofondo un sibilo di chitarra, un feedback acido, rumori appena percettibili a contrastare l’acustica arpeggiata ed il baritono esistenzialista di Varlet, col ritmo che non viene mai lasciato andare a briglia sciolta, sempre trattenuto, accennato, affidato agli ottavi (“Rue de Garennes”) o a cadenze zoppicanti che sembrano incespicare su sé stesse. Varlet riesce ad affascinare irresistibilmente con la fisarmonica desolata che introduce e contrappunta il romanticismo spettrale di “Des mandarines”, così come col basso pulsante e le atmosfere da soundtrack bondiano di “Ce jour”, impreziosita da un finale palpitante di tromba, o col tourbillon elettrico che strapazza il beat esitante di “Revers”; ma sa anche fare il francese, e sa perfettamente pennellare una cover sinistra di “Chanson a tuer” di Philippe-Gérard (ne è nota la versione di Jeanne Moreau) o il classicheggiante melo per archi di “L’amour epingle”, sempre mantenendo intatta l’intensità di un timbro vocale già di per sè sufficiente a riempire qualsiasi traccia. Disco innovativo, ricchissimo di idee e di canzoni, uno scrigno socchiuso su un tesoro che svela poco a poco la propria lucentezza, fino all’epifania finale del promesso splendore. (Manuel Maverna)