recensioni dischi
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VIC CHESNUTT  "North star deserter"
   (2007 )

Il grande e sfortunato Vic Chesnutt, che nel 2009 ha finalmente (per lui) lasciato questa valle di lacrime, rappresenta una voce unica nel cantautorato americano degli ultimi vent’anni, situandosi in un ambito che definire folk-rock sarebbe tanto esplicativo quanto riduttivo. Segnato indelebilmente nel corpo dall’incidente che irreversibilmente lo condannò – nemmeno ventenne – alla sedia a rotelle e ad una sofferenza non solo fisica alla quale mai fu assuefatto, Vic si è autoproclamato cantore di quell’ineludibile, sordo, strisciante male di vivere al quale si è consegnato (più che arreso) la notte di Natale del 2009, forse suicida. Assente dai suoi testi – da un punto di vista letterario spesso eruditi, mai banali – ogni autocommiserazione o stizzita rivalsa, con un garbo dimesso di vibrante intensità il bardo storpio ha scritto pagine intrise di un minimalismo dolente, spesso affidando al solo accompagnamento della sua piccola chitarra classica esili e gentili lamentazioni, mai teatralmente disperate, sempre lucidamente disincantate, quasi fataliste nel loro trasparente sarcasmo. Coadiuvato per “North star deserter” dall’amico Guy Picciotto (Fugazi) ed avvalendosi dell’apporto determinante, sia come back-up band sia nella costruzione degli arrangiamenti, dei canadesi Thee Silver Mt. Zion (emanazione dei Godspeed You! Black Emperor), Vic inanella dodici tracce permeate da un lirismo di sontuosa intensità, dodici tremanti ricami nei quali riversa l’intero suo mondo, un universo di imperfezioni in qualche modo segnato dalla redenzione (il toccante passo gospel di “You are never alone”), ma sempre anelante a Sorella Morte (“Over”), forza liberatrice a lungo invocata e pazientemente attesa fino al prevedibile epilogo. Sia che si tratti di confessioni intimiste per sola voce e chitarra (l’iniziale, palpitante “Warm”, la raccolta “Rustic city fathers”), sia che l’ensemble dia libero sfogo a dilatate deflagrazioni chitarristiche di stampo noisy (“Everything I say” e “Debriefing” vengono quasi violentate nel loro parossistico – forse inessenziale – crescendo), sia che Vic raggiunga una mirabile sintesi di tutto ciò (gli otto minuti esitanti di “Splendid”, la spoglia nenia di “Marathon” col suo morbido tappeto di chitarre), sia infine che affidi a suggestioni gospel il proprio ambivalente messaggio in bottiglia (il pathos corale di “Glossolalia” così come la toccante cover di “Fodder on her wings” di Nina Simone), l’album non perde una briciola della sua opprimente, desolata, penetrante bellezza. Disco che è impossibile ascoltare a cuor leggero, opera affascinante e soffocante al contempo, compendio claustrofobico di arte e vita, una vita vissuta come preludio alla morte, poco conta quanto serena e annunciata sia stata. (Manuel Maverna)