recensioni dischi
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CALI  "L’amour parfait"
   (2003 )

Si astengano anche soltanto dal provarci tutti coloro ai quali il tricolore d’oltralpe proprio non va giù: sarebbe tempo sprecato, alle prese con questo signore coi lineamenti da indio ed inzuppato di francesità fino a ben oltre la cima dei capelli. Monsieur Bruno Caliciuri, bizzarro soggetto italo-franco-belga in arte semplicemente Cali, è uno chansonniére di stampo tradizionale, la cui arte si caratterizza per l’espressività sovraccarica e l’istrionica presenza scenica, dispensata a piene mani nel corso di una sempre frenetica ed intensa attività live, che lo ha visto protagonista indefesso negli anni seguiti al debutto discografico. Debutto che fu decisamente tardivo, con questo “L’amour parfait” del 2003, quando il nostro aveva già raggiunto le trentacinque primavere ed aveva alle spalle una lunga e frammentaria militanza nel mondo della musica in qualità di membro di band rimaste semisconosciute. Fu notato e scritturato piuttosto fortuitamente, dando inizio ad una luminosa carriera tuttora costellata di successi e riconoscimenti. Questo disco è uno scintillante tourbillon di suoni e luci, scatti e pause, uno spettacolo che riesce quasi a materializzarsi fra le tredici tracce che lo compongono e nelle quali entrano tutti – ma proprio tutti – i crismi della canzone popolare francese: e allora avanti con una profusione di violini e violoncelli (splendido quello che rende funereo l’incedere da café chantant di “Tout va bien”), parti orchestrali che somigliano a piccole piéce sinfoniche (“L’amour parfait”, “Fais de moi ce que tu veux”, il finale de “Le grand jour” che richiama addirittura il celeberrimo canone di Pachelbel), soste morbide e trasognate (la pigra ballata di “Tes désirs font désordre”), un pianoforte da cabaret (ancora lo sketch de “Le grand jour”), il flamenco indemoniato di “Dolorosa”, lo sketch bandistico di “J’ai besoin d’amour”), bizzarrie assortite (“C’est toujours le matin” potrebbe provenire direttamente dal repertorio di Manu Chao) e rarissime sortite in territori impervi (la fusion tra archi e rock psichedelico tentata in “Différent”). Il tutto attraversato come corrente elettrica da un ritmo quasi sempre sostenuto e condito da continui inserti, intrecci, idee ed imprevisti che regalano una gioiosa euforia a canzoni ben concepite e sapientemente arrangiate. I tre brani che aprono l’album rappresentano il migliore biglietto da visita per accostarsi a questo geniale cantautore e folcloristico interprete. La sfrenata cavalcata zingaresca di “C’est quand le bonheur?” è un uragano che travolge tutto in una corsa malinconicamente esaltante, prima di cedere il posto al simil-country furbetto di “Elle m’a dit”, propulso da un passo febbrile e da un testo tragicomico, ed alla ballata languida di “Pensons a l’avenir”, giocata su un bell’impasto vocale con la suadente Laurence Ansquer: varcata la soglia, il viaggio nel mondo irreale di Cali può avere inizio. Nel suo genere, un capolavoro. (Manuel Maverna)