recensioni dischi
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DID  "Bad boys"
   (2013 )

Arrivano i cattivi. Un po’ in contrapposizione all’idea di “quei bravi ragazzi” delle piccole mafiette del music business, ma anche per un’altra consuetudine tutta italiana, ovvero il considerare cattivo chiunque tenti una destabilizzazione, ecco tornare i Did. Tornare poi non è il verbo adatto: la band non si è mai allontanata troppo dalla scena, anzi, questo loro secondo album è una sorta di raccoglitore con ultimi 4 anni di peripezie, un ponte ideale tra la Torino dell’Astoria e del Club To Club e l’Europa fibrillante che ha scelto la bipolarità tra Berlino e Londra come punto di stabilità del sound contemporaneo. Un disco che è una sfida insomma: attitudine internazionale e voglia di girare la Penisola, tendenza a varcare ogni confine e desiderio di mantenersi comunque non troppo lontani da casa. L’ennesima scelta insensata di un gruppo che rappresenta bene gli ultimi 10 anni di rock ibrido oltre a tutto il potere eversivo nascosto negli anni Zero. Canzoni pop che con il pop canonico hanno davvero poco a che fare. Brani scritti e registrati in un lustro intero, passato tra i palchi di un’Europa mai stata così vicina. Ci sono pezzi composti a inizio carriera, come four-piece band, affinati in trio nei bassifondi di Londra, con l’idea di restare lì (e difatti qualcuno della cricca non è più tornato); ci sono voci riprese alla buona in momenti catartici, idee arrivate in furgone con l’emicrania del post-concerto e l’entusiasmo del tour, ma anche canzoni nate dopo tribolazioni durate una vita intera, eppure celate dietro gli accordi all’apparenza semplici di un duo. Gestazioni e tribolazioni. È l’intera saga della band e dei suoi luoghi. Dentro ci sono ospiti che segnano ancora una volta il labile confine tra passato e presente di città che hanno nel sangue questo intreccio di suoni e generi. Perché? Per una destabilizzazione che è marchiata a fuoco su vite spese in funzione di quello che è il ritmo della nostra modernità. Incertezze che divengono certezze, e scelte coraggiose come quella di produrre la gran parte del disco in autonomia, dopo un passato confinante con la Dfa e con la New York dei Liquid Liquid (comunque presenti con un featuring nel disco). “Bad Boys” lo ribadisce. Forte principalmente dell’accordo tra Guido Savini e Andrea Prato, l’album si agita tra hip hop e punk funk, si scioglie fra new wave e gay-pop, errando fino a raggiungere una summa. È la storia di quattro ragazzi e di una strada che non ha una sola direzione. È l’epilogo di 10 anni di quell’indie italiano che ha deciso di non relegarsi nel suono scontato della melodia pura e semplice. È ancora una sfida. È la voglia di tornare in furgone da nord a sud, di non abbandonare l’asfalto, di nutrirsi di quella linfa da sempre cercata nei vicoli. È ancora dance. È soprattutto voglia di rompere le regole, o almeno di dettare le proprie. È sconsideratezza, insomma, un modo eversivo di cercare il poi. O forse l’unico modo praticabile.