recensioni dischi
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DIRTY BEACHES  "Drifters / Love is the devil"
   (2013 )

Dirty Beaches è uno degli artisti più prolifici e attesi del momento, e, a detta dei critici più autorevoli, autore di uno dei dischi migliori dell’anno. L’uomo che si cela dietro al nome d’arte Dirty Beaches è Alex Zhang Hungtai: solo performer, musicista di strada e nomade. Nato in Taiwan, Hungtai ha reso Toronto, Honolulu, Montreal e Vancouver casa propria. “Il termine ‘casa’, per me, è un collage di tutti quei paesaggi fratturati che cerco di mettere insieme”, diceva qualche anno fa Alex Zhang Hungtai a proposito della condizione di apolide che la vita gli ha riservato. Un’estraniazione che il compositore di origini taiwanesi da sempre prova a tradurre in musica: due anni fa percorrendo le misteriose highway di “Badlands”, oggi nel doppio album “Drifters / Love Is The Devil”, laddove quei “paesaggi fratturati” assumono infine profondità tridimensionali. La parola-chiave di questa ora abbondante di musica è introspezione. Accantonato solo in parte, come si vedrà, lo psychobilly allucinato e le pulsioni suicidiane di “Badlands”, Hungtai parte per un viaggio destinato a scavare ancora più in profondità negli abissi della psiche, non tanto e non solo – ci pare di capire – per un bisogno di catarsi, quanto piuttosto di farsi conoscere all’ascoltatore. La metafora è il viaggio, quelle città e quei luoghi che danno il titolo alle sedici canzoni, cocci che una volta assemblati compongono l’insieme. Un lavoro tutt’altro che facile, e per il quale, infatti, a Hungtai sono serviti sei lunghi mesi di registrazioni tra Montreal e Berlino, nello studio di Anton Newcombe (The Brian Jonestown Massacre). A livello musicale, la distanza tra il primo e il secondo disco è netta. “Drifters” guarda ancora parzialmente al recente passato: “Night Walk” imprigiona i suoni di una metropoli attutendoli attraverso filtri immaginari: un muro o, più semplicemente, lo spazio che intercorre tra la vita e chi la osserva da una certa distanza. La passione per gli anni Cinquanta già evidenziata in “Badlands” torna in “I Dream In Neon”, mentre il compulsivo mix di contrabbasso e synth di “Belgrade” stratifica allucinazioni prog, fino ad approdare ai chiaroscuri umorali di “Casino Lisboa”. Di fatto, “Elli” segna il punto di non ritorno, il momento in cui il progetto Dirty Beaches si distacca da quanto già assodato per cercare nuove forme espressive, tra drum-machine ossessive, cannibalismo urbano (“Aurevoir Mon Visage”) e cambi di passo post-industriali (“Mirage Hall”). Posizionato all’estremo confine di “Drifters”, “Landscapes In The Mist” è l’esatto punto d’incontro tra il primo disco e “Love Is The Devil”: le parti ritmiche e le tensioni accumulate nei brani precedenti si dissolvono all’istante per dare vita a suggestioni ambient in apparente disordine. Da qui in poi, la materia si fa impalpabile, la ritmica sparisce e il suono non fa che seguire trame invisibili. Le suggestioni eteree di “Greyhound At Night” e “This Is Not My City”, il corto circuito accompagnato dai tocchi di pianoforte di “Woman”, l’onirica, sottile malinconia di “Love Is The Devil”, la pace surreale di “Alone At The Danube River”, quella drammaturgica di “I Don’t Know How To Find My Way Back To You”, e infine la placida quiete dei sensi di “Like The Ocean We Part”, non a caso sconfinante in un lungo silenzio, fino ad arrivare a “Berlin”, nella quale tutto viene rimesso in discussione: è tra le pieghe di questi otto brani svincolati dalla forma-canzone che il progetto Dirty Beaches prova ulteriormente a mettersi a nudo, nella ricerca del contatto con l’ascoltatore. A volte, magari, esagerando con sperimentalismi e minutaggi. Ma, se ancora non l’aveste capito, Alex Zhang Hungtai non è uno che scende a compromessi.