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LA DISPUTE  "Somewhere at the bottom of the river between Vega and Altair"
   (2008 )

Nel caso non conosceste già i La Dispute da Grand Rapids, Michigan, e non sapeste quindi cosa aspettarvi da un loro album, cercate di figurarvi un cantante (Jordan Dryer) dotato di un registro vocale che richiama talora quello strozzato e gutturale di Robert Smith, addizionato della bruciante foga di Zack De La Rocha; immaginatelo gridare in uno screamo/spoken-word disperato - non rabbioso - testi grondanti la dilaniante frustrazione di un Jonathan Davis su musiche partorite dalla mente deviata di un Daron Malakian, ma corrette da intrecci melodici tipici dell’emo-core. Avrete forse una vaga idea di come possa suonare questo strabiliante, stordente, urticante album di debutto datato 2008. In tredici episodi conditi da una violenza così singolare da apparire al contempo sia compressa che debordante nella sua furiosa deflagrazione, Dryer e soci inscenano una pièce truce e agonizzante, in un tentativo di catarsi estremo, più esorcismo che autoanalisi. Trave portante di questa incombente architettura sono sicuramente i testi, intrisi di tanta e tale angosciosa oppressione da spaziare tra esistenzialismo ed iperrealismo, tra storie di violenza domestica (“New storms for older lovers”) e resoconti di piccoli/grandi fallimenti personali (“Andria”): è una carrellata di figure perdute nella nebbia della depressione, della noia, del fatalismo, della rassegnazione, un microcosmo di incubi concitati che concede qualche spiraglio alla redenzione, ma sempre con un muro di dolore a fungere da sfondo alla narrazione. In una frenetica recitazione urlata, talora affine a Henry Rollins, ma in alcuni momenti addirittura prossima a lambire l’hip-hop, il quintetto sciorina riferimenti musicali di matrice varia, spaziando dal metal (“Damaged goods”) all’emo-core (“Said the king to the river”, con un ingorgo elettrico spettacolare), da accenni di math-rock (“The castle builders”) a schegge di hardcore frontale in stile Fugazi (“Bury your flames”), fino ad aperture tipiche del post-rock (“Sad prayers for guilty bodies”). L’attitudine – tuttavia – evidenzia una singolare unicità nell’approccio, che è cerebrale pur nella sua ineludibile fisicità, un approccio che non è mai davvero metal, nè punk, così come i temi affrontati, che vibrano di una propria distinguibile identità. I brani e le intuizioni che li animano risuonano splendidi quando plasmano con una bizzarra, rovesciata grazia trame melodiose ed arzigogoli ritmici, più derivativi – almeno da un punto di vista strettamente musicale – allorchè ricorrono invece a stilemi mutuati da certo punk-metal di maniera, talvolta indulgendo in qualche appesantimento poco congeniale a questa espressività di barbarica veemenza (i dodici minuti di “The last lost continent” offrono buoni spunti, ma anche momenti ridondanti). Ogni traccia è un piccolo trattato psicanalitico, un cul-de-sac in fondo al quale una oscura, incombente, ferale presenza attende in agguato per quarantacinque minuti di belluina intensità, interamente fondati sulla elevazione della nevrosi latu sensu a strumento espressivo, un po’ l’equivalente intellettuale dell’operazione tentata con successo da Trent Reznor fino a “The downward spiral”. (Manuel Maverna)