recensioni dischi
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BONNIE 'PRINCE' BILLY  "The letting go"
   (2006 )

Will Oldham è un tipo insolito. Il problema con Will è che non si capisce mai – o non si capisce più – dove si situi il confine tra genialità e furbizia, cosa sia autentica, genuina intuizione, e cosa invece manierismo mascherato da una innovatività solo simulata o – al più – appena accennata. Alfiere da due decenni di un folk-rock dimesso ed ostentatamente low-profile, questo depresso bardo del Kentucky dall’aspetto trasandato ed ascetico ha proposto nel corso della sua onorata e addirittura osannata carriera una versione del tutto personale del cantautorato intimistico all’americana, conservando lo spirito da drop-out sotto le spoglie di un songwriting solo in apparenza convenzionale. Will gioca a maneggiare sapientemente le armi di cui dispone, trasformando piane ballate per chitarra acustica depressa in bozzetti espressionisti viziati dalla manipolazione di almeno tre elementi. In primis l’uso della voce, talvolta plasmata al limite delle sue possibilità, sovente sgraziata e impastata, svogliata e indolente, ma a suo modo affascinante (“Love comes to me”, “A strange form of life”), sa trasmettere anche ai brani più semplici una vena di follia ed un pathos sospeso a mezz'aria come una mannaia pronta a calare. In secondo luogo, la scrittura dei brani si avvale di progressioni di accordi “sbagliati” in grado di sabotare le melodie in modo subdolo (l’infida cantilena di “Wai” – su un’accordatura aperta - procede per esitazioni armoniche avvalendosi di un giro chiuso dalla voce ma non dagli accordi), sottraendo alle composizioni parte del loro naturale appeal, ma al contempo impedendone la banalizzazione. Infine gli arrangiamenti – ricchi e sovraccarichi di archi, percussioni, scampanellii, seconde voci e contrappunti vari - sono concepiti anch’essi per rivestire a nuovo canzoni che rischierebbero altrimenti di precipitare nel maelstrom del folk-rock di maniera (“Cursed sleep” offre un vasto campionario di trucchi che ne esaltano il sound). Con le dovute cautele, tutto il disco può essere letto ed ascoltato attraverso il filtro costituito da queste tre lenti, sia che si tratti del country sbilenco e oscuro di “No bad news” sia che si inciampi nello shuffle lounge di “Cold & wet” o nella nenia fanciullesca di “Big Friday” (col giro inziale peraltro terribilmente somigliante a quello de “La disparition” di Keren Ann), o ancora nel marasma di dissonanze sinfoniche di “The seedling”, col suo insistito crescendo che incalza sino alle soglie del fastidio, o addirittura nella romanza celtica a due voci di “The letting go”. In coda, resta spazio soltanto per la lovesong campestre di “I called you back”, country lento e – questa volta sì – tradizionale, punteggiato da una tromba evocativa e sognante a sostenere l’ennesimo testo meditativo, e per la jam jazzata e senza titolo che chiude il disco lasciando un senso di sospesa incompiutezza. Disco intenso, segnato da liriche esistenzialiste, da una introspezione insistita e da un velo di inevitabile noia. (Manuel Maverna)