recensioni dischi
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SUN KIL MOON  "Ghosts of the great highway"
   (2003 )

Primo album di Mark Kozelek senza i Red House Painters, sebbene di fatto il canto del cigno di “Old Ramon” fosse già un lavoro solista, “Ghosts of the great highway” ricevette un’accoglienza entusiastica che lo incensò come lavoro di eccelso livello, a solo qualche passo di distanza dalle pietre miliari dei primi anni '90. Rispetto al sound dei Red House Painters, l’album si discosta dal filone slow-core per (ri)pescare a piene mani dalla tradizione folk americana, qui miscelata con il consueto spleen sepolcrale di Kozelek, solo in parte mitigato dagli argomenti trattati: emerge con forza, ispirando diversi brani, una tra le grandi passioni del crooner dell'Ohio (la boxe), cantata nella ruvida ballata elettrica di "Salvador Sanchez" e nella conclusiva "Pancho Villa" (con la stessa musica di "Salvador Sanchez", ma virata in chiave acustica), citata nel country sbilenco dell’opener "Glen Tipton" ed eletta a modello nella sublimazione concettuale dei quattordici minuti di "Duk Koo Kim", splendida ed inebriante variazione monocorde su un un unico accordo esplorato e scomposto in ogni possibile foggia. L'album contiene due dei brani più noti di Kozelek: la sfuggente, drammatica ballad di "Carry me Ohio", che parla - come sempre - di morte su un arpeggio ripetuto all'infinito su un mid-tempo da Creedence Clearwater Revival, e la placida apertura di "Gentle Moon", con un ritornello da anni '50 e qualche passaggio che pare rubato dalla versione dei Fun Lovin Criminals di "We have all the time in the world". Disco in qualche misura frammentario nella sua stralunata intensità, forse poco omogeneo, forse soltanto paradossalmente acerbo nel suo tentativo di aprire nuove strade per il folk-rock elettrico; intanto, l'animo leopardiano di Kozelek insiste nel sondare il male di vivere e la caducità dell'esistenza in una cantilena infinita ad un metro dal baratro, come un pugile - Duk Koo Kim - che vive o muore per un pugno sbagliato. (Manuel Maverna)