recensioni dischi
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ULAN BATOR  "Vegetale"
   (1997 )

Trio francese che, a differenza dei colleghi d'oltralpe, confinati ad una esposizione limitata all'ambito nazionale, ha conosciuto notorietà di nicchia e relativa diffusione anche al di fuori del proprio feudo, dove anzi è stato sempre trascurato: troppo complessa la proposta, troppo irregolare l'incedere dei brani, troppo poco francese l'insieme, che suona assolutamente in linea con i crismi della psichedelia a stelle e strisce e che ha portato la band ad essere (erroneamente) scambiata per una band anglosassone autrice di un post-rock malleabile e curiosamente emotivo. Proprio la psichedelia costituisce invece la base di questi sette lunghi brani frastagliati ed elaborati, ma dilatati al punto da risultare ascoltabili e addirittura piacevoli pur nelle loro divagazioni, ora più concitate (la bellissima apertura di "Lumiere blanche", tre minuti di canto e cinque di serrata, oscura ritmica con bei contrappunti di chitarra dissonante, o lo sferragliare metallico di "Fuite" che termina a passo marziale), ora più delicate ed eteree (la parte iniziale di "Pekisch organ", lo strumentale "Hart"). Il canto di Amaury Cambuzat è essenziale, in pratica un recitato di secondo piano; i brevi testi vengono declamati in francese, ma sono tutt'altro che fondamentali, come spesso accade per un genere di musica che avrebbe senso anche se restasse soltanto strumentale. Fa in parte eccezione "Embarquement", il lungo brano che chiude il disco su un registro sinistramente percussivo che conferisce al pezzo un'aria inquietante: mentre il basso risuona cupo, e la batteria scolpisce una cadenza insistente ed ossessiva, la chitarra ripete all'infinito un tema monocorde sullo stesso registro profondo del canto, che si impenna solo sul finale in un marasma di distorsioni. Lavoro interessante, al contempo arduo ed accessibile, per nulla tedioso come a volte questo tipo di proposta rischia di essere. (Manuel Maverna)