recensioni dischi
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HELMET  "Meantime"
   (1992 )

Gli Helmet di Page Hamilton, band di macellai sonici newyorkesi dediti a smantellare il rock canonico, smembrandolo da una prospettiva apparentemente metal ma in realtà cerebrale, colta ed intellettuale (Hamilton è diplomato al conservatorio in chitarra jazz), ordirono una barbarica soppressione della bella musica grazie ad sound efferato, brutale, orrendo da un punto di vista della ricerca melodica, ma devastante sotto il profilo dell'impatto sonoro. In “Meantime”, loro secondo album ed episodio tra i più apprezzati di una oscura carriera, le cadenze sono spesso irregolari, la sezione ritmica (in primis il monumentale batterista John Stanier) incespica singhiozzante in un frastuono debordante trafitto dalle urla sguaiate di Hamilton, solo a tratti ricondotte a normalità da inattese virate verso un improbabile mainstream ("Better", "You borrowed"). La sensazione generale è di un fastidio del quale si attende con impazienza la fine, un impasto virulento di chitarre strapazzate all'inverosimile e di latrati canini che sbrindellano un tessuto noise poggiato su montagne di feedback, mentre una batteria metronomica ripete marziale il proprio interminabile sabba percussivo. Disco omicida, gelido e senza cuore, una sinfonia del malessere reiterata all'infinito, anche se già - rispetto all'esordio terrificante di "Strap it on" - si intravedono i segnali di qualche timida apertura. (Manuel Maverna)