recensioni dischi
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BEE GEES  "Spirits having flown"
   (1979 )

Rieccoli, sempre lì in cima alla vetta del successo, i fratelli Maurice, Robin e Barry Gibb, al secolo i Bee Gees. Sono trascorsi quasi tre anni dall’ultimo album da studio, c’è stato il successo galattico de LA FEBBRE DEL SABATO SERA e, seppur marginalmente, di GREASE (di cui, anche se molti non lo sanno, erano tra i produttori), intervallati dal mezzo fiasco di SGT.PEPPER e di un disco dal vivo. Finalmente escono con un nuovo disco il quale, naturalmente, non impiegherà che una settimana dall’uscita nei negozi per insediarsi prima nelle zone alte della classifica e poi al primo posto assoluto. E questo non riguarda solo il 33 giri, dal titolo SPIRITS HAVING FLOWN, ma anche i primi due singoli tratti dal nuovo lavoro, ossia TOO MUCH HEAVEN e TRAGEDY, la canzone che, nonostante l’arrivo di nuovi ospiti nelle classifiche internazionali e italiane, non accenna assolutamente ad uscire dalla Top Ten, con l’intenzione di stazionarci ancora per molto. I Bee Gees hanno due diversi tipi di pubblico: quello di coloro che conoscono il gruppo dal periodo 1977/78 e quello che lo conosce sin dagli esordi in campo internazionale, cioè dal 1967, quando si impose all’attenzione dei media italiani con una serie di successi di eccellente livello come MASSACHUSETTS, NEW YORK MINING DISASTER 1941 e WORLD. Poi ci fu lo scioglimento dopo IOIO del 1970 e la rinascita con un nuovo stile musicale, quello delle ballate eleganti e sofisticate dal forte sapore internazionale, di un pop eccellente e di grande successo: e siamo al periodo di HOW CAN YOU MEND A BROKEN HEART, di MY WORLD, e di RUN TO ME. Canzoni che non hanno assolutamente bisogno di presentazioni. Nel 1974 sembrava avessero perso la vena così felice che li ha sempre distinti e la voglia di cantare e comporre comincia a venir meno. Non sanno quale tipo di musica proporre, si trovano spiazzati in un panorama che è in bilico tra il progressive della seconda generazione e la musica da discoteca. Scelgono quest’ultima e lanciano pezzi come JIVE TALKIN’ e YOU SHOULD BE DANCING che avrebbero potuto ben figurare in un album degli Earth Wind & Fire o dei B.T.Express. Invece è farina del loro sacco, di queste tre fenici australiane piene di risorse, di stile e di vita (come e più dei gatti). Quando ormai li davano per spacciati o pronti per orbitare nel pianeta Las Vegas (ossia il cimitero degli elefanti per artisti importantissimi ma che hanno difficoltà a proporsi sul mercato con materiale nuovo) loro che cosa fanno? Lanciano quei due pezzi che in men che non si dica entrano nelle classifiche mondiali dei dischi più venduti, delle air play radiofoniche, nelle speciali graduatorie dei disc jockey. Insomma, è di nuovo la Bee Gees mania, come e più di dieci-undici anni fa. Il loro tour viene registrato per intero ed uno dei concerti viene trasferito su master, studiato e missato alla perfezione in Francia, al castello d’Herouville. Ne uscirà HERE AT LAST... BEE GEES LIVE, che contrariamente a tutte le vecchie illazioni, che li definivano come pessimi showmen, Barry e fratelli si svelano non solo efficaci sotto il profilo tecnico ma veri e propri enterteiner, maturi per ogni pubblico, specialmente per quello smaliziato americano. L’album è una carrelata di tutta la produzione del gruppo, tra guizzi ritmici e sospiri melodici, e propone sia pure con malcelata modestia il monumento a loro medesimi. Ma il meglio deve ancora arrivare. E arriva nel 1977: inutile star qui a raccontare quel che ha significato un film e una colonna sonora come LA FEBBRE DEL SABATO SERA. Poi il 1979, quest’anno. Altro enorme bagno di fama e di dollari (non australiani!) per i tre fratelli Gibb. Un disco che avrebbe dovuto essere meno “disco” (inteso come genere) e più impostato verso il soul ma da un indagine di mercato si viene a sapere che il pubblico americano vuole i Bee Gees degli ultimi due anni e quando il pubblico vuole qualcosa, che fai? Non l’accontenti? E riecco qui Maurice, Robin e Barry con i loro falsetti, la perfetta sovrapposizione delle voci, i fiati e i giri di basso così cari al gruppo e al genere “disco” in generale (quello di un certo livello, si intende). La cosa che potrebbe assolutamente apparire strana è che il disco venga pubblicato prima in Italia che in Usa. Una ragione c’è: il disco era già pronto da quattro mesi ma i precedenti album non accennavano ad abdicare nelle charts statunitensi e allora, per non inflazionare il mercato ormai saturo, si è pensato di far tirare il collo ai loro fan (ma non solo a loro). Questo disco è anche il primo della loro produzione, se si esclude SATURDAY NIGHT FEVER, ad essere preso sul serio dalle maggiori radio statunitensi, che si rivolgevano ad un pubblico di colore, ed il loro album più venduto che non fosse una colonna sonora: vende qualcosa come 35 milioni di copie. Il disco viene lanciato insieme a TOO MUCH HEAVEN, un bel pezzo, melodico e di ampio respiro che francamente non fa in tempo ad uscire che arriva subito alla posizione numero uno della classifica. Troppo perfetto e troppo architettato alla maniera di un megahit per fallire la prova. Dopo un mese e mezzo viene lanciato il secondo singolo mentre il primo è ancora in classifica. Si chiama TRAGEDY ed è un brano molto ritmato, ad effetto, articolato in maniera inconsueta e dai toni “epici”, grande dispiego di strumentazione ed un arrangiamento efficacissimo: anche qui, siamo di fronte ad un capolavoro nel suo genere, un brano che si fa riconoscere dopo un solo secondo dall’inizio, una canzone nata per diventare un evergreen del gruppo e del periodo. Altri brani del disco sono LOVE YOU INSIDE OUT, che ricalca l’atmosfera di Febbre del sabato sera, con un uno degli archi che si muove con grande intelligenza. E ancora STOP (THINK AGAIN), canzone differente da tutte le altre del disco, più orientata verso standard black classici e che potrebbe far parte del repertorio di un artista r’n’b; è nelle corde di un cantante nello stile di Billy Paul o Al Green, che non a caso ha inciso una versione stupenda di HOW CAN YOU MEND MY BROKEN HEART. Alcuni ospiti d’eccezione nel disco: Herbie Mann (flauto) Joe Lala (percussioni), George Terry (chitarrista di Eric Clapton) e l’intera sezione di fiati del complesso rock pop dei Chicago (non so se mi spiego!) e cioè Loughnane, Parazaider e Pankow. Un disco che era considerato la prova del nove di un gruppo che non scriveva pezzi per un vero “loro” disco da troppo tempo e che non ha fallito assolutamente fino a raggiungere la perfetta fusione fra la loro vecchia anima (quella del pop sofisticato e romantico) e l’imperante discomusic (che comunque è agli sgoccioli). Difatti, dal 1979 in poi, i Bee Gees usciranno allo scoperto molto ma molto raramente. Negli anni ottanta le loro sortite possono contarsi sulla punta di una sola mano: 1981 (HE’S A LIAR), 1987 (YOU WIN AGAIN) e 1989, tour mondiale e album ONE. Come si è detto i Bee Gees hanno due facce ugualmente capaci di raccogliere consensi: quella affezionata al gruppo degli inizi e quella dei nuovi adepti, che si sono avvicinati al gruppo da quando hanno cominciato a fare discomusic. Il tour mondiale del 1979 non prevede – neanche stavolta – l’Italia. I preparativi per la tournèe sono colossali: per più di un mese Robert Stigwood, il loro produttore li ha rinchiusi in una villa principesca di Miami. Arrivano su Limousine corazzate nel primo pomeriggio provenienti da Biscayne Bay, dove Barry possiede una villa altrettanto maestosa e rimangono in studio fino a notte inoltrata. Il debutto avverrà in Texas e, man mano, si sposteranno in tutti gli States. Gli impianti, il palco viaggiante e gli strumenti si muoveranno su cinque autotreni mentre i tre fratelli avranno a disposizione un jet privato. Uno dei posti nel quale suoneranno sarà il famoso Dodger Stadium di Los Angeles, aperto fino ad ora tre volte alla musica: nel 1966 per i Beatles, nel 1975 per Elton John ed ora a loro disposizione. Naturalmente anche in Italia ci si dà da fare per portarli in uno stadio ma non c’è niente da fare. La risposta come al solito è la seguente: avete i terroristi ed un pubblico violento. Da voi non veniamo. Ma siccome il nome Bee Gees fa vendere qualsiasi cosa, Vittorio Salvetti li premierà alla distanza all’Arena di Verona l’8 settembre, durante la finale del Festivalbar. Il quale Festivalbar li ebbe ospiti quando presentarono la canzone partecipante alla competizione nel 1973, WOULDN’T IT BE SOMEONE. Il compenso che percepirono a quel tempo, sei anni dopo non basterebbe neanche a coprire la spese di viaggio. (Christian Calabrese)