recensioni dischi
   torna all'elenco


LIONS IN A COMA  "Northern lights"
   (2014 )

Per chi una volta nella vita ha avuto vent’anni e una band in cui suonare, il miraggio del successo, o semplicemente la voglia di provarci, si scontra talora con l’urgenza di esprimere tutto e subito, senza filtri nè condizionamenti. A vent’anni o giù di lì fioriscono band punk (non più così tante), metal (parecchie), indie (la maggior parte), cantautori sbilenchi sempre più “off”, sparuti act sperimentali, un pugno di rockers veri e propri, qualche temerario che si cimenta con l’elettronica. Punto. Poi capita che da una piccola cittadina valtellinese – non da San Diego o dall’Islanda - sbuchino dal nulla quattro ragazzi e una ragazza che decidono di darsi un nome che è tutto un programma, un suggestivo ibrido tra la “Girlfriend in a coma” di smithsiana memoria e la “Lion in a coma” degli Animal Collective: mai, tuttavia, riferimenti potrebbero essere più ingannevoli, se è vero che i baldi giovani si schierano apertamente in un angolo d’arte sonora tanto indefinibile quanto anacronistico, una sorta di fenditura spazio-temporale che attraversa un paio di decenni di musica contemporanea in forme mutevoli e cangianti. Nascono così i Lions in a Coma, che si autoincasellano sotto la voce “post-rock” e licenziano questo ep di tre brani (troppo pochi, ed è un peccato) dalla deliziosa grafica di copertina e dalle molte, brillanti idee. Certo, parlare di “post-rock” è dire tutto e niente: si potrebbe passare dagli Slint a Steve Albini, dai Polvo ai June of ’44 ai Codeine, dal math-rock alla new-wave del post-rock, quella che ne ingentilisce l’aspetto e l’imbastardisce con la psichedelia, quella che eleva la dimensione eminentemente strumentale ad ambito preponderante, sopprimendo spesso le liriche, divenute inessenziali. Si potrebbe parlare di un post-rock che si tramuta in art-rock ed arriva a lambire il neoclassicismo, un post-rock fatto di lunghe suite che prediligono talvolta il crescendo (i Godspeed You! Black Emperor) o una stasi trascendente che proviene in linea diretta dalla trance ambientale (gli Explosions in The Sky, ma anche i Sigur Ros), figlia della sperimentazione degli ultimi Talk Talk e delle seminali intuizioni dei Bark Psychosis, sintetizzate nella odierna reinterpretazione di una musica dilatata e free-form. In mezzo c’è tutto ed il suo contrario, dai Mogwai ai Mono, dagli Hammock ai God Is An Astronaut, ciascuno dei quali inietta nel proprio pastiche più o meno distorsione, più o meno melodiosità, più o meno tensione, più o meno minimalismo; e lì in mezzo, in una minuscola nicchia, ci sono cinque ragazzi valtellinesi che – follia – debuttano aprendo il loro mini di esordio con un brano di sei minuti che vaga ondeggiante tra un arpeggio estatico ed una voce registrata che ricorda la “Dead flag blues” di Menuck & soci, prima di deflagrare in un coro lontano e di ridiscendere all’origine in un incantevole ricircolo ipnotico. E’ il preludio alla seconda traccia, che cambia registro irrobustendo la ritmica ed accentuando l’aspetto più marcatamente rumoristico, pagando forse nel canto sguaiato/urlato qualche debito al post-punk primigenio, ma smorzandone l’irruenza con una progressione di accordi più aperta ed un andamento meno squadrato; ma sono soprattutto i sei minuti della strumentale “The birth and death of Ison”, mini-suite il cui unico difetto è – paradossalmente – la brevità, a meravigliare per la sorprendente maturità compositiva e per la gestione delle dinamiche, per il saliscendi emotivo che costruiscono con una progressione di soave delicatezza, per la lievità che suggeriscono in punta di strumenti. Debutto che merita almeno un ascolto (http://www.lionsinacoma.com), dimostrazione palese di un talento tanto cristallino quanto impegnativo da incanalare, gradevolissima promessa lanciata nel vento, rosa che dovrà cercare di fiorire tra rocce spigolose. (Manuel Maverna)