recensioni dischi
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SONGS:OHIA  "The lioness"
   (2000 )

Vittima di anni di abuso di alcool, il grande e sfortunato Jason Molina, songwriter originario dell’Ohio, si è spento a Indianapolis nel marzo del 2013 a soli 39 anni, in stato di indigenza ed in totale, raminga solitudine.

Cantore di una cupa, opprimente desolazione, nel corso di una dozzina di album (alcuni sotto il moniker di Songs:Ohia, altri con quello di Magnolia Electric Co., un paio a nome suo) Jason ha dispensato, col timbro vocale traballante e malfermo che ricorda vagamente sia il crooning stentato ed inelegante di Neil Young sia quello ostentatamente imperfetto di Will Oldham, un triste compendio di arte povera e sincera, sublimata in composizioni tanto scarne ed essenziali quanto strabilianti per l’intensità emotiva in esse profusa e per il palpitante malessere esistenziale che da ogni traccia stilla e trasuda.

Tra i lavori più completi e maturi della sua breve ma intensa carriera, “The lioness” raccoglie nove tracce spoglie e disadorne, ciascuna delle quali poggia prevalentemente sul canto esangue – benché non privo di una romantica, intima dolcezza – di Jason, supportato immancabilmente da un chitarrismo essenziale e monocorde, quasi si trattasse di un ininterrotto talkin’ blues improvvisato su una base ad esso funzionale (emblematico il crescendo ossessivo dei sette minuti dell’iniziale “The black crow”).

Grazie all’apporto fondamentale, tra gli altri, di Alasdair Roberts e di Aidan Moffat (Arab Strap) in fase di rifinitura, insoliti arrangiamenti arricchiscono a tratti l’album di contrappunti tastieristici che ne accrescono la dolente grazia (splendido l’organo quasi doorsiano della toccante “Being in love”, così come l’insinuante inciso di “Tigress”), pur senza snaturarne la sostanza, un misto di sofferto fatalismo e di sorda, strisciante tensione, come ad esempio quella trattenuta e mai rilasciata in “Coxcomb red”.

Le spazzole che sorreggono lo slow notturno di “Lioness” regalano ad un brano agonizzante una parvenza di raccolta lievità prima della sua graduale trasformazione in una ballata straziante, e soprattutto prima che le tastiere si eclissino ricedendo il ruolo di protagonista alla voce esitante di Jason, un soffio di vento che sospinge verso lande deserte gli ultimi tre brani - simili a spettri vaganti in un nulla indistinto -, altrettante lente cadenze visionarie, dimesse e fragili.

Così, “Back on top”, “Baby take a look” e la conclusiva “Just a spark” sono poco più di un commiato in punta di piedi, confessioni a mezza voce di un’anima perduta, già lontana dalla pazza folla, da un corpo preso in affitto, da una vita sbagliata e da un mondo che non era il paradiso. (Manuel Maverna)