recensioni dischi
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THE RAVEONETTES  "Pe'ahi"
   (2014 )

L’idea dei Raveonettes, duo danese che da quasi tre lustri calca con sincera coerenza artistica la scena indie, è – in fondo – nulla più di una reprise furbetta di quel rumorismo di matrice shoegaze che affonda sì le proprie radici nei tardi eighties, e che trova sublimazione nello sperimentalismo dei My Bloody Valentine, ma che non disdegna il mascherato recupero di grezze suggestioni più vicine al primitivismo rock ante litteram. Se da un lato fa capolino un rude, addirittura greve retaggio di stampo garage (“Endless sleeper”), dall’altro una bizzarra commistione fra Royal Trux e Jesus & Mary Chain origina un ibrido certamente derivativo, ma ammirevolmente personalizzato, anche grazie all’impiego di contrappunti allettanti e di strumenti insoliti (ad esempio l’arpa): dai Velvet Underground a scendere, quello del rumore-in-musica è un clichè abusato, che si trasforma tuttavia, nelle mani di Sune Rose Wagner (chitarre ed effetti) e della suadente Sharin Foo (basso e voce), in una personale rilettura del verbo noise più affine al dream-pop (il feedback di “Z-boys” è onirico e tutt’altro che violento, come sostanzialmente innocua è la lullaby sbilenca di “When night is almost done”) che alla psichedelia tout court. Pubblicato a sorpresa e senza alcuna promozione, “Pe’ahi“ – dieci brani per trentasei dolenti minuti - non si discosta dunque dallo stile tipico del duo, offrendo ad animi nostalgici un succinto compendio di incontaminata musica d’altri tempi, chiusa a nuove tendenze e deliziosamente anacronistica, enclave racchiusa in giorni lontani, prigioniera di una sottile melanconia senza via d’uscita. Sotto una coltre di feedback, la drum-machine smorza la virulenza della proposta raggelando composizioni che lambiscono l’algido pop ragionato dei Garbage (“Killer in the streets”) o la furia strisciante à la “Psychocandy” (“A hell below”), accenni di trance ipnotica (“The rains of may”, che inizia su un registro à la Nico – meno ieratica – e termina con un bel crescendo), ed effetti stordenti affidati ancora alle scariche acide della chitarra (“Kill!” ricorda – anche troppo – la “Reverence” dei fratelli Reid), prima della deliziosa chiusura sulla tenue ballata stravolta di “Summer ends”. Puro indie autoreferenziale, senza ambizioni di mainstream nè volontà di diventarlo, “Pe’ahi” dispensa pillole di una musica straziata ad arte, paradossalmente gradevole per un pubblico di nicchia, esercizio invece trascurabile per chi non abbia familiarità con una tanto superata quanto intensa e vibrante operazione di distorsione della pop-music. (Manuel Maverna)