recensioni dischi
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HAZY LOPER  "Ghosts of barbary"
   (2014 )

Segreto gelosamente custodito in uno scrigno occultato tra le pieghe della memoria, i californiani Hazy Loper, sbilenco, anticonvenzionale collettivo aperto facente capo al genio sottostimato di Patrick Kadyk, amano talvolta rinascere dalle proprie ceneri, senza preavviso alcuno nè velleità da star-system, riemergendo dalle profondità dell’abisso artistico e mentale che da un decennio silenziosamente abitano. Prelibatezza per palati fini, delizia riservata ad uno sparuto manipolo di fedelissimi, in punta di piedi “Ghosts of barbary” - in uscita ad ottobre in tiratura limitatissima, 300 lp e 200 cd confezionati a mano e personalizzati dagli stessi Hazy Loper - segna il ritorno al proscenio a sette anni dall’ultima testimonianza su disco, con l’inquieto passo sferragliante d’anime perse in una perpetua, impenetrabile penombra. Arte raminga e zingaresca, pastiche apolide di frontiera, in una opprimente, plumbea, caliginosa atmosfera che non conosce lume nè leggerezza, scorre come pece una musica tetra ripiegata su sé stessa, sigillata dall’interno già a partire dalla struttura: scarni giri di esili accordi ossessivamente ripetuti, in rigoroso modo minore, definiscono questa esigua ed improbabile marching-band fantasma, ideale compagna di un corteo funebre che si snoda lento tra i poco rassicuranti bassifondi di una immaginaria banlieu d’altri tempi. Trafitta dai contrappunti agonizzanti degli archi (“Treadle of the loom”), arranca strisciante una incessante cantilena, compendio di mestizia che snatura la lievità del country pervertendone l’inclinazione, lungo un tortuoso sentiero che richiama Calexico (“Down to the coast”) e Handsome Family (“Song of the lost”), citando la barbarica ricercatezza strumentale waitsiana (“Wide world”) ed il Johnny Cash più mistico (“Sure ain’t dead”), non rinunciando ad incursioni nel barocco (lo strumentale “Napier lane”, con le sue deraglianti scordature metalliche), nè a suggestioni mariachi (“To the wind”, che pure inizia su un’aria old-time), fino a lambire in più di una occasione le stralunate allucinazioni desertiche dei seminali Thin White Rope (“Ghosts of barbary”, ma soprattutto “Yanka’s lament”, con una fragorosa deflagrazione chitarristica centrale). In cotanta oscurità, solo sporadici bagliori filtrano tra i pesanti drappeggi che ammantano questo infidamente ammaliante country gotico: restano – tremolanti fiammelle - il singalong campestre in maggiore della teneramente melodiosa “Easy”, e gli accenti sudisti dell’opener “Last night of the earth”, unico brano a discostarsi dal solco della tradizione per sfiorare addirittura un accenno di mainstream-folk tra R.E.M. e Travis, ma sono dettagli impercettibili di un dipinto che conserva intatta la propria aura di rassegnata desolazione. Risuonano vividi echi vicini e lontani di Tarnation e Sparklehorse, Micah P. Hinson e David Eugene Edwards, Black Heart Procession e Gillian Welch, ma questo disco è un buco nero che inghiotte i suoi padri, folk o western che siano: rimane solo un comune denominatore, ed è il buio, quello di Nick Cave o di Alison Shaw, quello dei Venus o di David Tibet, quello di Brendan Perry o di Vic Chesnutt, poco conta. La porta è socchiusa quanto basta per oltrepassare la soglia: benvenuti nel cuore di tenebra, si scende. (Manuel Maverna)