recensioni dischi
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INDIANA  "Indiana"
   (2014 )

Parlare degli Indiana, cercare di descrivere il mondo che viene raccontato attraverso i loro testi, spiegare ciò che si cela dietro alla dimensione non-sense che li caratterizza, è cosa non semplice. Son loro stessi, del resto, ad affermare: “Chiedersi se delle informazioni autobiografiche possano servire allo scopo di conoscere qualcuno, è giusto, anche se retorico. Alcuni tratti anagrafici aiuterebbero solo ad ingigantire dei pregiudizi riguardanti la giovinezza o la vecchiaia di qualcuno, riguardanti il suo luogo di provenienza e, maggiormente, riguardo le cosiddette influenze musicali. Sarebbe meglio non presentarsi a parole, evitando di fornire un identikit da prodotto inscatolato, da zuppa pronta, lasciando questo compito alla musica che in fondo dovrebbe essere, per chi la fa, l'unica fonte biografica sincera”. L'omonimo EP, il secondo dopo il primo “La strada” (2012), affonda le sue radici nell'esperienza dell'ennesimo abbandono da parte di un elemento. Rimasti in tre, spaesati e scombussolati, hanno pensato di chiudersi in sala prove per comporre, produrre e registrare un nuovo album, con la solenne promessa di restare in tre e uniti, cercando di arrangiare i pezzi non come in "La strada" (frutto di sonore elucubrazioni sgangherate), ma in modo da essere suonabili da loro tre soli, attraverso l'interazione coi pc. Gli arrangiamenti sono la cifra che caratterizza la fluidità del lavoro, come del resto lo sono i denunciati limiti di produzione, che cercano di sfruttare a loro vantaggio e di farli diventare quasi “un marchio di fabbrica”: suoni, sintetizzatori, chorus, reverberi e beat, insomma tutto ciò che avevano a disposizione. Il risultato di questo gioco può essere definito come un "low-fi digitale", dove spinose chitarre acustiche dialogano con macchie di polverosi sintetizzatori e con voci talvolta ironiche, come in “Vorrei vivere con poco”, altre un po' più patetiche, come in “Memento”, il tutto recintato da sequenze di batteria e da beat un po' scientifici per il loro essere a tempo, quasi fossero dei vigilanti che danno un freno al gioco dei tre bambini. Il tema del gioco, del sogno e dell'interiorità del resto sono anche riflessi nei testi che oscillano tra il surreale e l'onirico, tra immagini di vita e morte guardate però allo stesso momento quando l'essere allegri non esclude che intorno a se tutto possa morire, e muoia, e viceversa. La canzone di chiusura, “Exploding plastic inevitabile”, con il suo essere fuori-posto, è forse la chiave di lettura dell'intero EP e non la sua negazione. Pensare di aver già ascoltato tutto, e invece alla fine riascoltarlo al contrario per cercare una risposta, una spiegazione che forse non si trova, ripartire dall'enigma, dal rebus finale, che non chiude il cerchio, per trovare un senso che non c'è. Questa forse è l'intenzione nascosta degli Indiana, questo è stato il non-senso del loro gioco.