recensioni dischi
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CESARE BASILE  "Tu prenditi l'amore che vuoi e non chiederlo più"
   (2015 )

Cesare Basile non è un cantante qualsiasi: troppo disallineato, estraneo agli schemi, refrattario alle regole del cantautorato latu sensu per poterlo includere in quella nutrita schiera di songwriter nostrani che discorrono pur sempre di cuore&amore, magari con quel pizzico di ironia o di ricercatezza che talvolta vale loro una medagli(ett)a di latta al valore. Cesare non è più un ragazzino, né un non-giovane, tantomeno un manager furbetto che strizza l'occhio alle vendite: artista che cela la propria statura dietro un paravento di schiva umiltà, è forse un cantastorie o un poeta scomodo mascherato da aedo di piazza, spirito svincolato da catene e schiavitù di ventura, penna mordace che verga impassibile il proprio solipsistico verbo, incurante di mode e cambiamenti del vento. Declinando con sorniona incisività un folk etnico spolpato all’osso, figlio di una sperimentazione coraggiosamente ardita nella sua cieca sconvenienza, Cesare scende in un abisso dantesco di malcelata sporcizia che sa di vicoli maleodoranti, di variegata umanità, di Ciprì e Maresco: inscena, avulso da ogni godibile frivolezza, un microcosmo di boschiana deformità appena mitigato da un animo che resta – in fondo – gentile (il pianoforte trasognato de “U chiamunu travagghiu”), snocciolando ancestrale blues scarnificato di waitsiana memoria, scheletriche melodie impregnate di sudiciume e bassifondi (“A muscatedda”), piccole storie nobili di designati perdenti dignitosi che rifiutano qualsiasi sfumatura di lievità per scavare in una densa, fangosa poltiglia di vite vissute ai margini. Il linguaggio di elezione è, in larga parte, il dialetto catanese, plasmato sovente in un sinistro timbro gutturale ed offerto agli astanti con ossessivo sferragliare metallico (“Araziu stranu”), inserti bandistici (“Franchina”, baraonda scomposta sulla falsariga dell'immensa “Il deserto”), echi di musica di strada (la marcia sguaiata di “Manianti”, con tamburello e latrato sgangherato), suoni apolidi talora chiassosi (“Di quali notti”), altrove ubriachi di clangori assortiti (la fosca tarantella di “Ciuri”). Quando Cesare risale in superficie, la sua belluina visceralità sembra trovare requie negli episodi cantati in italiano, dall'armonia suadente della cerebrale “Tu prenditi l'amore che vuoi” (tra l'ultimo Faber e l'Ivano Fossati del periodo “La pianta del tè”) all'amarezza esplicita della sfibrante “La vostra misera cambiale” (con una magistrale interpretazione di Lilith Rita Oberti), dalla desolata filosofia di “Filastrocca di Jacob detto il ladro” alla veemenza indomita de “Libertà mi fa schifo se alleva miseria”, brani sì più fruibili musicalmente, ma strenuamente incompromissori quanto a contenuti ed intransigenza intellettuale. Lavoro intriso di ribollente vitalità, riflessione e sporca poesia, passionale e rigonfio, mai scopertamente gradevole ma proprio per questo strabiliante nella sua furente ostinazione, “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più” presenta il ritratto di un artista la cui grandezza è pari soltanto alla difficoltà di comprenderne appieno il messaggio, la classe incontaminata, la rinuncia fiera a qualsiasi arrendevolezza. (Manuel Maverna)