recensioni dischi
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PSYCHOPATHIC ROMANTICS  "Bread and circuses"
   (2020 )

Non è che gli Psychopathic Romantics “tornano a far notizia”. Però suonano il loro genere e producono la loro musica. Seppur non artisticamente stravaganti, hanno un nucleo rock, leggero, ricoperto da venature striate, tra il cantautoriale ed il folk americano. Suoni che vanno bene un po' a tutti, da quelli che apprezzano e analizzano a quelli che ascoltano distrattamente ciò che viene passato in radio. Si direbbe, complessivamente un album senza limiti preferenziali e/o di età. Riproposto ora in formato fisico (vinile), dopo la sua prima uscita avvenuta, in solo formato digitale, nel 2015. Registrato in maniera schiettamente live, nel senso di “slow-version squisitamente acustica”. E questa acusticità diventa spesso uno dei punti forti. Si notano infatti i cristalli sonori e le purezze cristalline delle varie chitarre o dei mandolini. Un piacere per chi ama tali raffinatezze! Particolare la voce del vocalist, dotata di quei toni che, per il suono e per il fatto che non si discosta troppo da certi registri vocali, in varie occasioni ricorda John Frusciante nelle produzioni effettuate in proprio. Tra i brani più interessanti e rappresentativi c’è la title track, “Bread and Circuses”, la quale, subito dopo l’esordio non del tutto convincente di “It’s all for you”, crea quell’atmosfera acustica riflessivo-sognante che si libra pian piano, sempre più in alto, e si fa ascoltare fino alla fine. Come se qualche divinità musicale suggerisse in maniera persistente di sentire dove va a finire una certa melodia. Un brano a metà strada tra le produzioni Iron & Wine e Sufjan Stevens. Similitudini col successivo “Open up wide”, che, oltre alle distese atmosfere folk e le incursioni in punta di piedi di strumenti a fiato, ha la caratteristica del ritornello/punto di rottura sullo stile tardo pinkfloydiano, che uno non si aspetta. Con “Up and Down” (feat. Rob.Shamantide) si raggiunge il country western, ad opera di arpeggi e meraviglie acustiche, ma scorre piacevole fino ad un certo punto. Improvvisamente irrompe un rap da ghetto metropolitano nella quiete di una prateria. Forse si è osato troppo, e l’ansia di fare qualcosa di diverso sembra avere deturpato una certa atmosfera. Qualcosa che, certamente, sarebbe stato meglio altrove, al di fuori di questo album. “H.ash” (feat. Amaury Cambuzat) ha, anch’essa, una bella atmosfera. Con tanto di iniziale strimpellio di chitarra e rullate sullo snare chiuso, entrambi ben assestati. A parte poi il breve poema recitato in francese, di cui se ne sarebbe fatto benissimo a meno, il brano figura (forse inconsapevolmente) una interessante atmosfera più movimentata, di quelle tipiche degli Akron/Family di “Love is simple”. Di quelle che riescono a legare, poi, con una chiusura che va spegnendosi lievemente. E la chiusura dell’album sarà assicurata da “Thank you” e dalle dalle sue affascinanti sonorità che sembrano scintillare. Si ricorda inoltre la spensierata ma non banale “I’ll see you there”. Ancora una volta (e menomale), l’intransigenza acustica di “Einstein said” e la più pop-rockeggiante “The gathering”, con tanto di assolo di chitarra in lontananza, sul ritornello, in evocazione (involontaria?) dei grandi Dredg di “El cielo”. E finalmente l’apoteosi acustica di “Extra special needs guy”, volta a cantare e celebrare l’emotività ed i bisogni di ognuno. Sommariamente è un album che merita di essere ascoltato, per apprezzare e beneficiare del colorito spettro sonoro acustico di cui è dotato. Anche perché risulta ben intessuto su una serie di interventi musicali, tutti riportanti alla memoria svariate contaminazioni, volute e non. A parte qualche scelta artisticamente azzardata e premesso che non propone musicalità del tutto originali, è comunque un’interessante catalizzatore di emozioni non banali e non scontate. (Vito Pagliarulo)