recensioni dischi
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JAMES IRWIN  "Unreal"
   (2015 )

Artista canadese defilato ed introverso, James Irwin vive e compone in una tranquilla zona di Montreal in una solitudine eletta ad eremitico conforto e primaria fonte di ispirazione. “Unreal”, pubblicato ad inizio 2015, restituisce una nuova, addolcita immagine di un folksinger poco allineato, discostatosi in parte dal manierismo – comunque godibile, a suo modo personale – dell’album di esordio (“Western transport”, 2012) per sposare una moderna concezione, meno conservativa ed assai intrigante, di cantautorato intimista. Introdotto dal singalong mellifluo di “Everything passed me by”, due accordi sorretti da un bel contrappunto tastieristico a definirne la linea e disegnarne l’armonia, “Unreal” dispensa il suo timido corollario di melodiosa pacatezza in un continuum di placida sensibilità che richiama la lezione del menestrello naif Donovan così come la tenue filigrana di Norah Jones o il piglio dimesso di Mason Jennings, senza tralasciare l’approccio intimo di Paul Simon nè il garbo sommesso di Al Stewart. Introdotte da un canto deliziosamente sfiatato, un soffio di voce funzionale a queste arie delicatamente tremanti, James dispensa tenui armonie in un mood folkish temprato e rimodellato da echi lounge levigati e suadenti, esili composizioni ingentilite da una impalpabile patina di misurata raffinatezza. Disco che elegge la propria eterea confidenzialità a tratto distintivo, “Unreal” si muove sinuoso fra il soul leggero di “Face value” e la rarefazione vieux-temps di “Did you hear who shot Sam”, fra lo shuffle da cocktail di “Blood going back in time” (che ricorda atmosfere à la Girls in Hawaii) ed il rallentamento cadenzato di “Siberia china”, oscillando con nonchalance dal passo à la James Blunt di “Walls around nothing” alla suggestiva desolazione della conclusiva “Sahra” (prossima a certe dilatazioni di Chris Isaak), deflagrando realmente una sola, unica volta nel brillante up-tempo shoegaze dell’inattesa “Michigan Miami” (quasi Simon Gallup e William Reid suonassero Springsteen). Il principale limite di “Unreal”, lavoro comunque gradevole, risiede forse nel suo andamento tendenzialmente monocorde: la veste laid-back dei brani invita sì alla quiete, ma fatalmente induce allo sbadiglio, non già in virtù della compassata indolenza delle composizioni quanto piuttosto della linearità – a tratti eccessiva – della scrittura che li caratterizza, senza che ciò – sia detto - vada in alcun modo ad inficiare il giudizio complessivo su un autore la cui garbata intelligenza rimane encomiabile a prescindere. (Manuel Maverna)