recensioni dischi
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DURAN DURAN  "Paper gods"
   (2015 )

Partiamo da un presupposto. Per chi è nato in una determinata fascia, diciamo 1965-1975, parlare dei Duran Duran non è una cosa semplicissima. Perché, ecco, loro hanno fatto la storia degli '80s, volenti o nolenti, nel bene o nel male, e tutto il resto è fuffa. Quindi, continuare a parlarne anche a decenni di distanza è soprattutto un impegno mentale, più che sonoro. La storia la conosciamo (quasi) tutti: il delirio, il tracollo, la dispersione, la reunion e il presente. Presente in cui i Nostri potrebbero tranquillamente vivere di rendita, giocando su tutto quello che è stato, magari sfornando dischi come "All you need is now" che parevano di fatto usciti da una macchina del tempo, senza porsi altri problemi. Invece no: Simon eccetera continuano, pur con le recenti tempistiche da piano quinquennale, a cercare una propria strada, non banale, che li rende, come sempre, impossibili da inquadrare. Vero che nella loro storia c'è sempre questa caratteristica di un disco di successo e un flop, e qui dovrebbe essere il momento del due di picche come fu l'ibrido "Red carpet massacre". Perché il guaio è sempre quello, cercare di uscire dalle strade conosciute per andare a dare proprie interpretazioni di quel synth-funk dei tempi che furono, ed è per questo che, prima di tutto, meritano rispetto, nel loro trentennale tentativo di dimostrarsi musicisti, prima che mannequins e motivo di disfunzioni ormonali femminei. Qui, si sta a metà tra i massacri del 2007 e le rispolverate spalline del 2011, facendo facili ritornelli ("Pressure off", uscita da "Notorious" se ce n'è una) ma anche, come nella title track, una specie di gospel da far pensare all'aver sbagliato disco. Ci sono richiami al ritmo ("Danceophobia", in primis) così come a lentezze che, però, nulla possono rispetto al ricordo delle preghiere conservate fino alla mattina successiva, e una instabilità musicale tipica dei DD fin dai primi giorni, con canzoni che ti fanno fermare per ascoltarle e altre che paiono puri e semplici riempisolchi. Né carne e né pesce, ma una specie di paella dove c'è sia l'uno che l'altro. Sintetizzatori e chitarre funky, alti e bassi, con la voce di Simon a fare da collante. Ma poi, stiamo parlando di niente. Questo è un disco dei Duran Duran, amen, e anche fosse una gara di rutti, per chi è nato il quella fascia di cui sopra, non si discute. E se non vi va bene, potete sempre fare onanismo con tutti quegli pseudoeroi nati dal 1985 in poi. Nessuno perderà niente. (Enrico Faggiano)