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JOE JACKSON  "Fast forward"
   (2015 )

Icona defilata di un pop garbato, impreziosito da eleganti contaminazioni jazzy e da una mai sopita verve ritmica, l’oggi sessantunenne David Ian Jackson, in arte Joe, britannico di nascita e newyorkese di adozione, da un decennio berlinese di residenza, si ripresenta con “Fast Forward” a tre anni di distanza da “The Duke”, rispettoso omaggio a Duke Ellington e sentito excursus in un territorio da sempre prediletto. Concepito inizialmente come raccolta di quattro ep, ciascuno dei quali registrato in una diversa città (New York, Amsterdam, Berlino, New Orleans) con l’apporto di musicisti operanti in loco, “Fast Forward” si avvale della collaborazione sia di illustri session men che di conclamate celebrità (Bill Frisell e Regina Carter su tutti) intervenuti ad ingigantire l’allure di un lavoro di per sè già monumentale (16 tracce per 71 minuti di musica), la cui ponderosa profferta non appare tuttavia mai ridondante né eccessiva. Alfiere gentile di quello che un tempo si sarebbe definito easy listening, Joe declina con vivida naturalezza e spiccata personalità il verbo che meglio conosce, nobilitando i fasti di inizio carriera come le più spavalde divagazioni dell’età matura; il suo è un pop a tal punto elegante e levigato da assolverne, proprio in virtù della caratura artistica che lo caratterizza, anche qualche scivolone nei testi, comunque minuzie al cospetto delle molte delizie che l’album sa regalare. A prevalere sono dunque elementi stilistici legati ad una sopraffina musicalità, tradotta in sontuosi arrangiamenti che riecheggiano Randy Newman (“If it wasn’t for you”) come Billy Joel (la title-track in apertura), capisaldi di un album che sa farsi strada con classe, forte di brani dallo sviluppo non sempre immediato. Sono canzoni che si insinuano sottopelle ammiccando al jazz (“The Blue Time”) o flirtando con accenti neoclassici - in definitiva le due scoperte passioni extra-pop di Jackson -, talora pennellando tracce di toccante intensità: è il caso di “Far away”, cantata in duetto con la quattordicenne star del musical Mitchell Sink, armonia avvolta su un tempo dispari ad un passo quasi cameristico che ricorda gli ultimi These New Puritans, o di “Satellite” con i suoi accenti ritmici così ostinatamente evidenziati risolti in un chorus da Supertramp, o ancora del ballabile suadente di una “So You Say”, poco meno che perfetta nella sua alchimia di piano-bar e melanconia antica. Lungi dall’esaurire la propria spinta propulsiva in numeri da comfort-zone, “Fast Forward” gigioneggia con una inaspettata cover dei Television (“See No Evil”, incattivita quanto basta) e con la trasposizione in lingua Inglese della “Good By Jonny” di Kreuder e Beckmann (sketch da cabaret espressionista), con una “Junkie Diva” degna degli Steely Dan e con l’ipnotico arabeggiare di “If I Could See Your Face”, senza mai smarrire l’appeal che ne segna il percorso né l’ispirato eclettismo capace di traghettarlo, con la più trasparente nonchalance, dalla ballad di “A little smile” ai tropicalismi di “Ode to joy”, dalle sferzate di “Neon Rain” allo shuffle di “Keep on dreaming”. Artista da apprezzare nelle sue molteplici sfaccettature, ciascuna delle quali poggia su un’eleganza d’antan fatta di belle maniere in un mondo di frenesia, Joe Jackson è oggi una squillante voce di tempi andati, animo nobile mai fuori moda che merita rispetto ed ammirazione per la costanza con la quale persegue da sempre una signorilità musicale sempre più rara. (Manuel Maverna)