recensioni dischi
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DIANA WINTER  "Tender hearted"
   (2015 )

Defilata figura di nicchia, la trentenne Diana Winter rappresenta nel variegato panorama della canzone italiana in guisa femminea un’anomalia ben custodita, celata tra le pieghe di una carriera dai risvolti anch’essi insoliti. Forse meglio nota per la partecipazione a “The Voice of Italy” nel 2013, o per aver rivestito i panni di corista dell’ugola d’oro Giorgia, più che per i suoi esordi e trascorsi da solista, Diana si ripresenta con “Tender Hearted” a ben otto anni dal debutto di “Escapizm”, sempre avvalendosi del determinante apporto produttivo di Fabio Balestrieri e della preziosa collaborazione di nomi di spicco del panorama internazionale (Phil Gould su tutti), sia in qualità di co-autori che come musicisti prestati alla causa. Il risultato dell’operazione è invero sorprendente, poco importa che “Tender Hearted” costituisca un rilancio, una rentrée o un nuovo esordio. Diana non è tornata per conquistare il mondo, né le si chiedono sconvolgimenti rivoluzionari, e questo disco, risplendente sfoggio di personalità, lavoro di trasparente spontaneità la cui brillantezza è esaltata da un frenetico incedere di ritmi incalzanti e da una sontuosa produzione che – rispettosa del groove di cui si pasce - riempie senza saturare, è in definitiva soltanto un lasciatemi divertire svincolato da necessità di sorta. In un vivace caleidoscopio che mai cede al grigio rigore formale e solo di rado rischia di divenire maniera, Diana rinuncia a strafare muovendosi con elegante scioltezza fra brani ben congegnati, arricchiti da una scrittura diretta e da arrangiamenti frizzanti, musica semplice ma vissuta, trascinata dalla percepibile convinzione di un’artista che crede al proprio progetto, rifuggendo dall’algida professionalità dell’interprete di ventura. Idealmente bipartito a mostrare solo due dei possibili mondi a colori raggiungibili da Diana, l’album si divide tra un pop-rock scattante e godibile ed una seconda parte maggiormente incentrata sulla rielaborazione in chiave personale di un funky-soul di respiro internazionale, regalando fra i momenti irresistibili il singalong catchy di “Killers”, a metà fra Jacko ed il soundtrack di “Fame”, il passo folkish del singolo “A Better Me”, le suggestioni d’antan di “Heavy On My Heart” (fra Eleni Mandell e la Eddi Reader periodo Fairground Attraction), la cavalcata frenetica di “Why Did You?” o l’up-tempo à la Blondie di “You Want It”, episodi dispensati con la candida nonchalance di chi si stia giocando un nuovo atout in dorata serenità. La college-music disimpegnata di “Get Out Of My Head” funge da cesura per il conclusivo cambiamento di rotta: il funky cattivello di “My Name” digrada nel passo sensuale à la Tom Robinson di “Don’t Want You Around”, nel nu-soul levigato di “Show Me What You’ve Got”, fino alla raffinata malìa jazzy della conclusiva “April Lane”, il solo rallentamento concesso in quaranta minuti pervasi da un’aura di festoso abbandono e provvida concisione. Le canzoni ci sono, la caratura artistica anche, la vocalità è indiscutibile: non resta – forse – che scegliere l’opzione più adatta fra le molte proposte, la direzione in cui incanalare un talento tanto solido quanto bisognoso di individuare con certezza la strada giusta da seguire. Per ora, brava davvero. Tutto qui. (Manuel Maverna)