recensioni dischi
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IVAR GRYDELAND  "Stop freeze wait eat"
   (2015 )

Pochi, qui nello Stivale tricolore, sanno chi sia il norvegese Ivar Grydeland. Si tratta, invece, di un personaggio davvero importante, si potrebbe dire fondamentale, per chi segue un "certo tipo" di musica, per intenderci quella sperimentale che, però, riesce spesso e volentieri ad essere "potabile" anche per orecchie solitamente avvezze a tutt'altre note. Per semplificare, potremmo dire che il suo nome, e tutta la sequela di collaborazioni importanti che ha tessuto nella sua carriera, trovano ampio spazio su Wikipedia inglese, non solo su quello norvegese. Il tessuto musicale sul quale è cresciuto è, indubbiamente, quello del jazz classico: dopo ampi studi di chitarra jazz alla Norwegian Academy of Music di Oslo (dove ora, tra l'altro, insegna), si è fatto conoscere per la militanza in band, affermate nel campo dell'improvvisazione, come Huntsville, Ballrogg e Dans Les Arbres (questi ultimi premiati di recente al Nordic Council Music Prize), così come in duo con Yumiko Tanaka ed in trio con Tonny Kluften e Paul Lovens prima e con Thomas Lehn ed Ingar Zach poi, e soprattutto per aver fondato l'etichetta Sofa, specializzata appunto in avant-garde jazz e free improvisation music. Nonostante il suddetto curriculum, i maggiori consensi Ivar li ha raccolti nell'unica occasione (sinora) nella quale aveva tentato il viaggio solista, vale a dire nell'album "Bathymetric Modes" che, quasi 4 anni or sono, fu letteralmente acclamato dalla critica. Ecco quindi perché questa sua nuova esperienza solitaria, denominata "Stop freeze wait eat", fosse attesa con grande ansia dagli amanti di questo mondo: attesa di certo ripagata (siamo di certo di fronte ad un'ottima opera), ma solo se l'ascoltatore è pronto ad alzare ulteriormente l'asticella. Perché stavolta, a differenza di quanto si diceva in apertura, Grydeland ha spinto ancora oltre la propria sperimentazione, perdendo di conseguenza, volutamente, quella suddetta capacità di essere "potabile" anche per orecchie poco allenate all'improvvisazione. Siamo quindi, stavolta, in territori nudi, elettronici (scaturiti da un progetto, denominato “Ensemble of Me”, nato e cresciuto alla sunnominata Norwegian Academy of Music di Oslo): lande di certo affascinanti, insomma, ma parecchio perigliose. Semplificando, chi ama la sperimentazione qui troverà non solo pane per i propri denti, ma anche un disco che può essere tranquillamente definito un capolavoro assoluto. Se invece siete neofiti di questo genere musicale, e state cominciando ora ad approcciarvi a questo mondo fatato, questa non sarà di certo l'esperienza più semplice tra quelle disponibili. Puro e crudo, ecco: questa è probabilmente la definizione più calzante per il disco in oggetto. Se ciò costituisca un grande complimento o, viceversa, un limite, questo spetta a voi a stabilirlo. (Andrea Rossi)