recensioni dischi
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SAILOR FREE  "Spiritual revolution part two"
   (2016 )

Mentre anche l’Italia degli underground, che non segue i talent show e non ascolta la radio, è sempre più abituata ai fenomeni mediatici – su tutti I Cani di Niccolò Contessa, che dal 2010 a oggi hanno raccolto migliaia di seguaci, e Calcutta, loro degno compagno e forse naturale prolungamento del pensiero e del messaggio di Contessa – che dall’anonimato e da SoundCloud hanno raggiunto il successo nel panorama mainstream (tanto che I Cani hanno triplicato proprio in questi giorni i concerti a Bologna visti i rapidissimi sold out della prima e poi della seconda data), sopravvive una scena, di cui si parla meno, rappresentata da band che ruotano intorno a punk-rock e post-rock (Luminal, Three in One Gentleman Suit), shoegaze e dream pop (Be Forest, Brothers in Law, The Yellow Traffic Light) e psichedelia cosmica (Heroin in Tahiti: il loro ''Sun and Violence'' è uno dei dischi migliori dello scorso anno) che ha tanto da raccontare. I Sailor Free, attivi già negli anni ’90 e poi tornati alla ribalta nel 2010 quando decisero di riunirsi, rappresentano una di queste (ri)scoperte: una band di cui si parla troppo poco, al confine tra art-rock, progressive e rock psichedelico, non inscrivibili in una delle semplificazioni che ho elencato poco sopra, che di per sé stesse sono certamente limitanti e limitate, ma utili per analizzare questa situazione. A quattro anni di distanza dalla prima parte di questo concept album – mistico, oscuro e difficilmente riducibile ad un unico genere musicale – nel quale si narra di una auspicabile rivoluzione culturale, ed ispirato al ''Silmarillion'' di Tolkien, i Sailor Free propongono al pubblico una seconda parte altrettanto esaltante e ispirata. Il disco non è di certo un capolavoro – termine troppo abusato al giorno d’oggi: di album-capolavoro ne usciranno quattro o cinque all’anno in tutto il globo, a essere ottimisti –, ma è un susseguirsi di emozioni e di idee estremamente interessanti, che inseriscono nuove sfumature all’interno di generi musicali che in Italia non riscuotono la dovuta attenzione. I Sailor Free sono stati in grado, sin dall’inizio del loro viaggio, nei primi anni ’90, di ritagliarsi una libertà espressiva comune a ben pochi gruppi del nostro paese e mai banale. Nell’album gli spunti che possiamo rintracciare sono numerosi: troviamo un’impronta dei Mogwai in alcuni fraseggi di chitarra e basso (nella bellissima ''About Time'', che unisce a un andamento math rock un timbro vocale in stile Joy Division) ma anche echi dei King Crimson di metà ‘70s, evidenti in certe melodie stranianti (colpisce a tale proposito la seconda traccia – che è la prima vera canzone del disco dopo la intro –, ''The Maze of Babylon'', dove compare uno splendido sax, una delle trovate più riuscite dell’album); a fare da collante a tutto ciò è una tastiera allucinata che ricalca le sonorità floydiane a cavallo tra il ’68 e il ’69 (in ''Amazing'' e ''Society''), fissate per l’eternità nel meraviglioso disco dal vivo del doppio ''Ummagumma''. Nonostante l’assenza di sintetizzatori, alcune atmosfere ricordano quelle dei Kraftwerk di ''Electric Cafe'', rese però più cupe e meno interstellari. Non sorprende sentire l’influenza dei Japan in qualche passaggio, specialmente nella seconda metà del disco. La voce di David Petrosino è forse, insieme alla tastiera – anche questa suonata da lui –, l’elemento più notevole dell’intero lavoro. L’unica critica che le si può muovere – non è però una critica di poco conto – è il suo essere troppo ancorata ad un gusto ormai passato: una voce che imita in ogni sfumatura, senza mai cercare di essere nemmeno per qualche secondo sé stessa, la tipica impostazione new wave degli anni ’80. L’esempio più lampante di questo vezzo si può trovare in ''Special Laws''. Gli strumentali, tra i quali ''Cosmos'' rappresenta l’episodio più notevole, seguono una linea sperimentale che sembra essere influenzata dal progetto Carter Tutti Void (autori dello splendido ''f (x)'' uscito lo scorso anno) più che da Brian Eno. L’ultimo brano, ''Revolutionary Soul'', risente delle sinistre scene create dai Dead Can Dance, e ricorda per alcuni tratti la loro ''The Carnival Is Over''. E proprio la voce di Brendan Perry è probabilmente quella a cui Petrosino guarda, per il senso di pieno che tenta di ricreare nei fraseggi. ''Spiritual Revolution Part 2'', se è qualcosa di già sentito nelle tematiche che affronta (la realtà distopica in cui viviamo va superata attraverso un cambiamento sociale e culturale), si presenta come uno degli esperimenti più interessanti usciti in Italia in questo primo scorcio di 2016, forse imperfetto sotto alcuni punti di vista, ma tremendamente intrigante. (Samuele Conficoni)