recensioni dischi
   torna all'elenco


GIORGIENESS  "La giusta distanza"
   (2016 )

Giorgie D’Eraclea è una bambina cattivella di ventiquattro anni, mente, ugola e anima del progetto Giorgieness, varato nel 2011 e giunto fin qui attraverso alcuni cambi di line-up ed illustri frequentazioni nel bel mondo dell’indie-che-conta. Disco di veemente urgenza che brilla per la determinante produzione di Davide Lasala e per lo sfoggio di strabordante personalità della sua autrice ed interprete, “La giusta distanza”, pubblicato su etichetta Woodworm, resta sospeso fra attacchi di cieca violenza, impennate belluine ed improvvise oasi di apparente tranquillità su cui incombono scomode confessioni autoreferenziali ed un alone di dolente disillusione. Dotata di una vocalità prorompente particolarmente adatta a veicolare il rock più abrasivo, Giorgie dispiega la propria furia in undici tracce venate di un intimismo truce ed incupito, a tratti addirittura sordido, deviato e malaticcio, compendio di negatività non privo – paradossalmente - di una sua rovesciata eleganza. E’ una scrittura che procede per immagini distorte, incorniciata da sonorità rotonde irrobustite da un chitarrismo fragoroso, ma sporcata dall’incedere irregolare delle composizioni, quasi ogni brano fosse strutturalmente viziato da asperità disseminate ad arte allo scopo di pervertirne la natura. Devastante nei quattro brani iniziali (“Sai parlare” e “Brividi lividi” si lasciano addirittura cantare mentre menano fendenti alla cieca, “K2” e “Il presidente” sono altrettante rasoiate urticanti immerse in un frastuono parossistico), l’album flette richiudendosi in sé stesso, rallentando i giri sulla ballata amara di “Non ballerò”, salvo ridestarsi nella stordente accoppiata che lega idealmente la love-story sbagliata di “Lampadari” ed il torbido singhiozzare di una “Come se non ci fosse un domani” definitiva nella sua indolente invocazione al nulla. La ragazza si sgola sputando veleno su un piccolo mondo interiore fatto di passi falsi, sbagli e debolezze, raggiungendo picchi di stordente intensità soprattutto nelle trame più violente, ma calando il sipario sulla dimessa aria monocorde di “Che strano rumore”, “Farsi male” e “Dare fastidio”, brani introversi, quasi rinunciatari, antitetici rispetto al furore vetriolico dell’incipit, dimostrazione di una classe che sa spaziare fra estremi opposti con disarmante naturalezza. Se soltanto rinunciasse ad una certa levigata pulizia nel canto lasciandolo libero di servire la visceralità che lo anima, potremmo trovarci al cospetto di un’artista di futuribile unicità, forse la versione inasprita di Cristina Donà, forse semplicemente una rockeuse come poche se ne vedono dalle nostre parti. (Manuel Maverna)