recensioni dischi
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DUO BUCOLICO  "Cosmicomio"
   (2016 )

Il duraturo e produttivo sodalizio artistico che lega i cantautori e musicisti romagnoli Antonio Ramberti e Daniele Maggioli sotto la sigla Duo Bucolico frutta il sesto album negli ultimi otto anni di una sbilenca, onorata carriera segnata sia da una elevata prolificità sia dal costante impegno profuso in una intensa attività concertistica. Coppia che sposa genialità, irriverenza ed arguzia condensando non comuni doti di scrittura in composizioni a sfondo comico, in “Cosmicomio” Ramberti e Maggioli rimpolpano una volta ancora il delirante bestiario di variegata umanità che fin dagli esordi arricchisce i loro bozzetti grotteschi, ilari e composti, invitanti al sorriso senza mai scadere in eccessi boccacceschi o nella trita volgarità cui la peculiare scelta stilistica potrebbe facilmente indurre. Musica ludica che non può prescindere dalla sua componente scenica, quella del Duo Bucolico è una forma d’arte popolare che ibrida folk e cabaret, sagra paesana e satira divertita in una landa di confine che spazia da Enzo Jannacci a Cochi e Renato, passando per Skiantos, Mano Negra e They Might Be Giants con humour pungente e scherzosa leggerezza. Sebbene solo di rado trovino spazio in “Cosmicomio” sketch magistrali all’altezza degli storici atout del repertorio, da “Vecchio cantautore” a “Ciclista Mantovani”, da “Il trielinomane” a “Il bevitore longevo”, l’album non difetta certo della consueta graffiante ironia che caratterizza il duo, a partire dall’irresistibile trittico iniziale: la politicamente-scorretta utopia a tempo di marcetta dell’opener “L’impero dei bambini” (siamo bambini speciali/siamo rimasti da soli/tutti gli adulti son morti/ma noi stiamo bene perché siamo forti), lo swing alieno de “L’astronave dell’amore (verde libido)” che gigioneggia tra Freak Antoni ed una coda à la Squallor, il contagioso ritornello virato in twist anni ’60 di una “Amo i politici” garbatamente sferzante. Ma sono soltanto schegge della globale visionarietà elegante che pennella l’affresco di tragicomica solitudine di “Ping pong” (astronauti depressi impossibilitati a giocare una partita nello spazio, perché nell’astronave la pallina non rimbalza), l’amaro – simulato – antipacifismo de “L’odio cosmico”, l’iperbolica follia di “Barbanera” sublimata in uno sghembo chorus di surf distorto (lunedì andrò dallo psicologo/martedì appuntamento col neurologo/ma venerdì mi devo riposare/perché giovedì farò l’elettroshock), il nonsense synthetico di “Ciavatta K” o la compunta metafora de “I camaleonti”. Ma che cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, ed è la lucida follia condensata nei quattro minuti di “Manola robot (sulla spiaggia di Numana)”, tragicomica love-story tra uomo e robot, dall’improbabile innamoramento all’esplosione scintillante fra le onde dell’oggetto bramato, fino alla desolata confessione conclusiva su una languida aria neo-romantica in minore, dramma della passione e gag esilarante, meritevole di entrare di diritto fra i nuovi classici di questi mai abbastanza celebrati cavalli pazzi, intrattenitori altri per un pubblico parimenti altro. Cara mia Manola tu sei diversa dalle altre/quando nuoti tra le onde fai miliardi di scintille/si disintegra la voce, poi si spegne la tua luce/perché un robot non può fare il bagno in mare/ tutt’a un tratto ho sentito un’esplosione… è triste essere un elettronico robot/che non può fare il bagno in mare. Send in the clowns. Chapeau. (Manuel Maverna)