recensioni dischi
   torna all'elenco


IFAD  "Malazioni"
   (2016 )

Cinque ragazzi classe 1987, giovani e pieni di idee, stanchi della società in cui vivono e decisi a ribellarsi, scelgono di dare sfogo alle loro pulsioni attraverso la musica. E, sempre perché stanchi di tutta questa mediocrità e falsità che li circonda, di questo inferno globale, decidono di non darsi limiti. Mescolano quindi hard rock, psichedelia, ruggiti da Rage Against the Machine, metal e chitarre rabbiose marchio Physical Graffiti: non sono certamente i primi a farlo, ma riescono perfettamente nel loro intento. Potrebbe essere la storia di tanti, e probabilmente lo è. Gli Ifad – rispetto ai tanti altri che possono riconoscersi in toto nella descrizione qui sopra – hanno dalla loro la giovane età e la sincera umiltà di quelli che non vogliono inventare nulla di nuovo, ma “semplicemente” fondere con grazia e coraggio tutto quello che hanno ascoltato nel corso degli anni. E il coraggio è anche nella scelta della lingua: i testi sono in italiano, merce sempre più rara per i gruppi nati recentemente nella nostra penisola. Ne viene fuori un disco piacevole, variegato, carico. I ragazzi sono tutto fuorché sprovveduti: sanno dare la giusta ruvidità alla voce, la perfetta aggressività a chitarre e bassi, una semplice ma efficace schiettezza alla batteria. La breve introduzione non dà troppi indizi, ma la travolgente onestà della successiva ''De-mente'' conquista grazie alla capacità di Giuseppe Pirazzo (basso e voce solista) di tenere la scena e di rilanciare, qui come nel resto del disco, le tematiche principali che il quintetto ha ritenuto doveroso affrontare nell’album. Si parla di alienazione, oppressione, di tentativi di evasione da una realtà claustrofobica che impedisce all’individuo di esprimersi liberamente e pienamente. La confusione della società, denunciata soprattutto in ''Inferno Globale'' e ''Malazioni'', corrisponde musicalmente alla confusione tragica e splendida dei generi: l’hard rock si spiega in mirabili digressioni psichedeliche o in accenni metal appena tratteggiati, in ''12-36'' il cantato improvvisamente scompare fondendosi alla pioggia di note emesse dalla chitarra e scompare per un po’, per poi ricomparire in modo altrettanto improvviso nel finale, per un ultimo, sconvolgente rigurgito di parole. La seconda parte del disco vede protagonisti le voci secondarie, che turbano profondamente per la loro apparente dimensione ultraterrena: lo splendido controcanto di ''Phobie'' è il botta e risposta delle personalità multiple di un disturbato mentale. Anche gli assoli chitarristici qui splendono, semplici nella loro fluidità, affascinanti quando finiscono per prendere la scena sopra alla sola batteria che scandisce, incessante, il ritmo assatanato del brano. L’episodio più melodico e meno duro (si fa per dire) del disco è la quasi-prog ''La Mia Forma'' – che presenta alcuni passaggi melodici dei primi King Crimson – seguita da un altro momento apparentemente calmo, ''Su di Me'', che sembra trovare una sorta di compromesso tra la solitudine immensa dell’individuo e la società malata in cui è immerso; il cambio di tono degli ultimi minuti, però, smentisce la tregua iniziale e continua la guerra tra le parti. La conclusione, ''Prega, Spera'', è un grido che racchiude in sé sia una buona dose di disperazione che una convinta incapacità di arrendersi. È il grido di battaglia che attraversa l’intero disco, un fil rouge nemmeno troppo sotterraneo. Gli Ifad si rivelano gruppo (già) maturo e pieno di stimoli – musicali, letterari, filosofici e ideologici – che i cinque riescono a ricondurre in un sistema che, se straborda di decine di idee differenti tra loro, nel suo complesso mantiene una coerenza interna sorprendente. Siamo di fronte a una band tecnicamente eccellente che fa bene al movimento rock e crossover italiano – sempre più popolato, purtroppo, di imitazioni di Foo Fighters, Nickelback e Fray, di vere e proprie cover band di questi o di idoli YouTube che ne rivisitano le hits riscuotendo migliaia di likes – e che ci dimostra ancora una volta quanto sia importante e per nulla limitante scrivere e cantare nella nostra lingua madre. (Samuele Conficoni)